Articolo scritto a quattro mani da Giuseppe Augurusa e Andrea D'Alessio
Fare il bene culturale è un mestiere difficile nel nostro paese. Costretto tra il prestigio della storia e la ruggine del presente, il bene culturale, una volta vigoroso e di bell’aspetto, si presenta spesso come un nobile decaduto. Le sue strutture, un tempo toniche come marmi di Carrara, ora presentano spesso caditoie inclinate come prolasso di vecchi tessuti, intonaci sfibrati come eritemi cutanei, infiltrazioni d’acqua che scavano la struttura come inestetiche vene varicose. Perlopiù si tratta di gioelli del passato, pronti a tracollare sotto il peso e le lungaggini di tonnellate di adempimenti burocratici. Pare di vederli, come nei disegni dei bambini, questi antichi palazzi, ville, castelli, manieri: le finestre e i balconi usi fare da occhi, naso e bocca, leggermente reclinati all’ingiù a raffigurare il volto triste di oggetti, un tempo viventi, ora maltrattati, nascosti tra sterpi e rovi, oscurati per sempre. Taluni perfino orfani di proprietari caduti in disgrazia, quando non addirittura passati a miglior vita, ceduti in custodia a fondi d’investimento, Società di comodo, Enti pubblici perlopiù senza portafoglio, tutti sedicenti orfanotrofi di smarriti immobili pluricentenari in cerca di una nuova, improbabile, vita. A tendere l’orecchio, pare di sentire il lamento di quelle bicocche vissute tra parchi secolari, sfarzosa mondanità, epici eventi, mentre, come figli di un divorzio non consensuale, sono contesi o più spesso dimenticati da coppie di genitori: lei la pubblica amministrazione costretta tra i vincoli di spesa e norme dall’impianto borbonico, lui il proprietario privato intento a far quadrare conti che non tornano mai, talvolta con la magica formula della socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili. Il più delle volte l’esperienza ci dice che finisce male, l’orfano soccombe mentre i genitori litigano o, peggio ancora, si ignorano.
Nel paese che vanta il primato mondiale nella classifica Heritage, ovvero del patrimonio culturale, storico e architettonico, sarà capitato a chiunque un’esperienza simile. Nella nostra città ad esempio – Arese, un piccolo centro alla periferia nord di Milano sviluppatosi sul mito dell’Alfa Romeo - da qualche anno, come in una sceneggiatura di Ken Loach, soppiantata da uno dei più grandi centri commerciali d’Europa, accade che una villa gentilizia del seicento, unico significativo reperto storico dell’età moderna, corra il rischio di cadere in disgrazia.
Dopo un glorioso passato remoto, dov’è stata la cornice di avvenimenti che meritano di essere tramandati, un dignitoso passato prossimo dove si è guadagnata l’affetto da parte di generazioni di concittadini, ora si affaccia a un futuro del tutto incerto. Già gravata prima, dal peso di IMU, TARI, manutenzione ordinaria di strutture e parchi, tutte incombenze che nelle stagioni migliori hanno consentito poco più di un sostanziale pareggio. Poi, a sfinire la gestione sono arrivate: la riforma Tremonti sugli immobili, la grande crisi economica del 2008, il tracollo dei matrimoni e, da ultimo, la pandemia. Neppure l’ipotesi di vendita a un fondo d’investimento allo scopo di fare l’unica cosa oramai redditizia in questo paese, una casa di riposo per clienti facoltosi, è andata a buon fine, costretta tra vincoli stringenti e tempi incerti del parco delle Groane, dei beni culturali, oltreché dall’assenza di un partner finanziario in grado di sostenere l’intera l’operazione. Così, nel luglio del 2019 i cancelli si chiudono dietro al suono malinconico di un concerto di commiato della banda musicale che, a sua insaputa, decreta la fine del lungo e generoso programma culturale che per decenni ha allietato migliaia di persone tra la curata geometria del giardino all’italiana, sotto le rigogliose piante secolari di quello all’inglese, nei gradevoli spazi interni adibiti a sale concerti.
Un’empatia quella tra la città e la “sua” villa, tale da rendere trascurabile il fatto che la stessa fosse privata. Nella percezione collettiva il bene artistico è prima di tutto “pubblico”, nel senso che la cultura con il suo valore universale è patrimonio di tutti; “la percezione, indipendentemente dal vero, è la verità” avrebbe detto J.P. Sartre. Pertanto, l’obiezione (che non è mancata e non mancherà) sui limiti di una qualsivoglia iniziativa collettiva volta a mettere in luce il rischio di una perdita del bene è ontologicamente destituita di fondamento, non già in virtù della sua efficacia, giudicabile solo ex post, quanto sulla sua legittimità. D’altra parte, che potrebbe dire l’anziana Villa guardando il vicino Palazzo Ignazio Gardella (ex centro tecnico Alfa Romeo), più giovane di oltre trecento anni, che proprio in virtù di un interesse collettivo è stato di recente al centro di una battaglia di successo per la sua tutela, nonostante la proprietà non fosse anch’essa pubblica?
Se proviamo a dare un’occhiata più da vicino scopriamo che Villa Lattuada Settala Marietti Ricotti, conosciuta più comunemente come "La Valera", è una tipica dimora di delizia del milanese. Le prime notizie note risalgono al secondo decennio del XVII secolo, quando in una lettera di Girolamo Borsieri viene menzionata la dimora vallerana del nobile Ludovico Lattuada, ricca di opere di artisti come il Luini, il Salviati, il Morazzone e il Procaccini. Delle opere sopraccitate e dell'aspetto seicentesco della villa non rimane alcuna traccia nota. Le forme architettoniche attuali si devono ai rifacimenti del secondo Settecento, realizzati dalla famiglia Settala. L'impianto ad acca, con due cortili, è quello classico delle dimore milanesi del periodo. Passata ai Marietti nel 1811, mantenne il suo aspetto di villa gentilizia ma anche centro gestionale di un'attività agricola che comprendeva tutto il borgo di Valera. Infatti non è possibile separare la storia dell'edificio con quella del borgo: dalle fonti a noi note (secondo Quattrocento) fino al secondo Dopoguerra, Valera era un'unica unità territoriale, di proprietà di un solo possidente. Le cascine, gli edifici rurali, i campi e la chiesa di San Bernardino da Siena appartenevano al proprietario del borgo (e lo sono tuttora, ad esclusione della chiesa). Questa peculiarità ha fatto sì che nel corso dei secoli il borgo mantenesse una certa autonomia sia amministrativa che culturale: un isolamento che ancora oggi è ben visibile sia da un punto di vista urbanistico che paesaggistico. Il borgo, così come lo vediamo oggi, è più o meno lo stesso di qualche secolo fa. A testimonianza di questo, in un salone della villa, vi è un piccolo affresco dei primi dell'Ottocento che ritrae l'edificio e parte del borgo. Una "fotografia" che potrebbe essere quasi del tutto attuale. Tra i tanti esempi di un passato ancora tangibile vi è l'attuale viale Marietti. Il suo filare di platani non è altro che un progetto di piantumazione del 1848, voluto da Giuseppe Marietti. Il viale entrava nei cortili della villa e proseguiva oltre questa, giungendo fino al santuario di Rho. Un cannocchiale prospettico che andrebbe valorizzato e conservato.
La chiesa di San Bernardino
Ma torniamo alla storia della villa: la sua tranquilla esistenza venne stravolta a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, quando il suo bellissimo giardino all'italiana venne trasformato in un orto e quello all'inglese parzialmente disboscato per produrre legna da ardere. Nell' immediato dopoguerra l'avvocato Ricotti acquistò la villa e il borgo e i suoi eredi sono gli odierni proprietari. I Ricotti ereditarono una residenza ormai spoglia del suo arredo originario, in evidente stato di abbandono e bisognosa di restauri. La nuova proprietà cercò di ripristinare gli interni con mobili d'epoca e restaurare al meglio il giardino, basandosi su fotografie dei decenni precedenti. Villa La Valera e il suo borgo sono la testimonianza di un sistema urbanistico privato - agricolo, di cui era pieno il nostro territorio ma di cui oggi rimangono sempre meno esempi. Simile a Valera, è il vicino complesso di Castellazzo di Bollate con la prestigiosa Villa Arconati (con cui sono documentati rapporti di vicinato sin dal XVII secolo). La Valera non è certo paragonabile, per architettura ed opere d'arte, a Villa Arconati, i cui proprietari erano degli importanti e ricchi nobili milanesi. Ma se quest'ultima rappresenta quasi un unicum, per dimensioni e ricchezza, la nostra villa, dalle forme più semplici ed interni più modesti, testimonia la presenza di una piccola-media aristocrazia (poi divenuta borghesia), che era tipica del nostro territorio e che ha plasmato la storia delle nostre terre.
Oggi Valera con la sua villa, la sua chiesa e il suo borgo caratteristico profuma di un passato che chiunque riesce a carpire. Un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato, ma che in realtà risente del peso degli anni e che senza un reale contributo conservativo rischia di andare perduto. Di recente, un albero secolare è caduto sul muro di cinta a seguito di uno dei sempre più frequenti fenomeni metereologici anomali, procurando una grossa breccia nell’antico muro di cinta perimetrale. Una ferita nel corpo del prestigioso luogo, un monito che, al di là delle rassicurazioni degli agronomi sarebbe utile non lasciare inascoltato.
Per tutte queste ragioni è necessario accendere un faro sullo stato della prestigiosa Villa affinché, se pur privata, l’interesse della collettività torni su uno dei beni più esclusivi della città di Arese. In tal senso, insieme al neonato gruppo di riflessione politica Prospettiva 2023, nelle prossime settimane intendiamo avviare una campagna che collochi villa La Valera tra i luoghi del cuore del FAI.
Andrea D'Alessio, nato nel 1982, vive da sempre ad Arese.
Nel 2009 si laurea in Scienze dei beni culturali con la tesi "In ecclesia loci Vallera", dedicata alla chiesa di San Bernardino da Siena di Valera. Nel suo percorso di studi ha effettuato ricerche di archivio sulla storia di Arese, in particolar modo sulla frazione vallerana. Dal 2008 collabora con alcune associazioni e fondazioni in ambito culturale territoriale.
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