"La cattiva arte - bisogna avere il coraggio di dirlo - è in buona parte colpa del pubblico"
La Triennale di Milano fino al 12 settembre ospita una mostra dedicata a Enzo Mari, il maestro del design italiano recentemente scomparso. L’allestimento, curato da Hans Ulrich Obrist con Francesca Giacomelli, documenta quasi 60 anni del suo lavoro e comprende disegni, progetti, modelli e materiali - molti mai esposti in precedenza - provenienti dall’Archivio Mari, che è stato recentemente donato al CASVA, il Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del Comune di Milano. Particolare curioso: in occasione della donazione Mari ha posto la condizione che nessuno dovrà accedere al suo archivio per quarant’anni “perché solo dopo questo lasso di tempo una nuova generazione di designer potrà farne un uso consapevole”.
Vale davvero la pena di visitarla, per ripercorrere l’attività di ricerca che Mari ha portato avanti per sei decenni e ammirare i prototipi di alcune delle sue creazioni di maggior successo.
In questo articolo, in particolare, vogliamo rievocare la sua Proposta per un’autoprogettazione del 1974, che tanto scalpore provocò all’epoca e all’origine della quale si trova un divertente antefatto.
Come lui stesso ha avuto modo di raccontare, Mari aveva disegnato un divano-letto che riteneva funzionale e “popolare”: bello, robusto e dal costo di fabbricazione contenuto. Tuttavia l’imprenditore che glielo aveva commissionato, non appena vide il progetto gli disse: “È molto bello e per me lo comprerei. Ma non lo produrrei mai, perché ci perderei soldi”.
Alcuni mesi dopo, un altro imprenditore - che scontava forse il peccato di non essere un imprenditore puro, ma di essersi laureato in architettura - apprezzò il modello e ne produsse 10.000 esemplari. Il mobile fu pubblicato sui cataloghi, venne esposto in diverse mostre, si fece molta promozione… ma non se ne vendette nemmeno uno.
A detta di Mari, una prima ragione di questo flop andava individuata, paradossalmente, nel fatto che il divano-letto, da lui progettato per una fascia di clientela a basso reddito, costava troppo poco e i distributori/rivenditori, ai quali andava il 50% del prezzo, non erano entusiasti di proporlo al pubblico, perché non guadagnavano abbastanza.
Ma la ragione profonda, che più lo amareggiò, fu un’altra.
Bisogna innanzitutto premettere che in quegli anni Mari, da sempre politicamente impegnato, era molto legato ai movimenti di protesta, che sosteneva disegnando manifesti, raccogliendo fondi ecc. (suo è tra l'altro anche il monumento a Roberto Franceschi, uno studente ucciso nel 1973 durante una manifestazione, in via Bocconi a Milano). Un giorno un leader studentesco, che era in visita al suo studio, notò in un angolo il prototipo del divano-letto e gli chiese: “Ma tu che disegni mobili così eleganti, perché tieni nel tuo studio quel brutto divano?”. Mari, che non voleva mortificare l’interlocutore rivelandogli che si trattava di una sua creazione, si limitò a chiedergli: “A te cosa piace?”. Per tutta risposta il leader studentesco gli descrisse i letti che i designer italiani dell’epoca progettavano per gli sceicchi del petrolio: rotondi, con il materasso ad acqua e lo specchio in alto.
Nei mesi seguenti rivolse la stessa domanda ad altri leader studenteschi e ricevette analoghe risposte. Alla faccia di servire il popolo! Ne ricavò la consapevolezza che la gente, i leader come le persone comuni, se comprende benissimo le cose che sperimenta sensorialmente (ad esempio che il prosciutto di Parma è buono, che un determinato vino è pregevole), non comprende nulla però della forma.
Ma come poteva intervenire sul gusto delle persone?
La risposta, in linea con la sua natura folle e un po’ didattica, fu la seguente: se le persone fabbricassero gli oggetti con le proprie mani (un vaso, una sedia, una scarpa), probabilmente presterebbero più attenzione alle caratteristiche strutturali e il loro gusto migliorerebbe. Quello che ci voleva era un vero e proprio esercizio di autoprogettazione artigianale, sulla falsariga degli esercizi zen. Il presupposto: la progettazione - come tutta la ricerca intellettuale – deve farsi anche con le mani, in quanto teoria e prassi vanno sempre insieme.
A quel punto, però, il problema si spostava più a monte: come può una persona comune progettare? Gli manca la tecnologia: non ha gli strumenti e se pure gli venissero forniti, non saprebbe usarli. La soluzione è il ricorso alla tecnologia del carpentiere, che è accessibile a tutti. Allo stadio più elementare questa tecnologia consiste in due pilastri, che terminano con una trave inchiodata. Il giunto così realizzato non è molto robusto, ma lo si può rinforzare immettendo una diagonale.
Tutti possono procurarsi facilmente un martello, dei chiodi, una sega, delle assi. Non occorre nemmeno che i manufatti vengano perfetti: lo dimostra la tradizione nordamericana di autocostruzione (il cd. balloon-frame), grazie alla quale tra il ‘700 e l’800 vennero edificate da semplici contadini intere città, nonché i carri su cui viaggiavano i pionieri e le barche con cui pescavano.
L’idea di Mari si concretizzò nella mostra Proposta per un’autoprogettazione, inaugurata l’8 aprile 1974 alla Galleria di Milano di Carla Pellegrini.
Il catalogo della rassegna cominciava con questo avviso pubblico: “Un progetto per la realizzazione di mobili con semplici assemblaggi di tavole grezze e chiodi da parte di chi li utilizzerà. Una tecnica elementare perché ognuno possa porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica”. Veniva poi maliziosamente precisato: “Chiunque, ad esclusione di industrie e commercianti, potrà utilizzare questi disegni per realizzarli da sé”.
Catalogo della mostra “Proposta per un’autoprogettazione”
Mari “suggeriva” ai visitatori della mostra 19 modelli (tavoli, sedie, scaffali, letti e armadi), che potevano anche essere considerati dei semplici punti di partenza per sperimentare altre soluzioni.
Costruendo da sé, le persone sarebbero diventate dei “competenti”. O quanto meno, quando fossero andate a comprare un tavolo, sarebbero state in grado di valutarne la qualità.
Modello di sedia
Sedia autoprodotta esposta alla Triennale.
La mostra ebbe grande successo e – benché qualche collega lo tacciasse praticamente di fascismo perché compito del design è realizzare cose comode per la gente, non farla lavorare - sia la stampa italiana che quella internazionale diedero grande risalto all’iniziativa.
Così commentava entusiasta Giorgio Manzini su Paese Sera:
“Col lavoro di una giornata, massimo due, si riesce ad arredare un intero appartamento, letto, sedie, tavoli, armadio, libreria, scrivania e in più una panca. Costo, sulle 40.000 lire per mobile, se si ricorre a listelli già squadrati e lisciati; 20.000 lire, forse anche meno, se si usano assi di legno grezzo che occorre segare e rifinire.… Non c’è bisogno di colla, non c’è bisogno di incastri, la tecnica necessaria è estremamente semplice, è la stessa usata dai carpentieri per costruire i loro tavoli da lavoro, i loro soppalchi, una tecnica semispontanea, di immediato apprendimento.
Può però sembrare una proposta intinta di ingenuità, o addirittura immersa fino al collo nel velleitarismo. Adesso, di punto in bianco, ci mettiamo tutti quanti a segare tavole e ad inchiodare listelli? Di questo limite, è il primo Mari a rendersi conto: certo, dice, il suo gesto è sicuramente utopico, è indubbiamente velleitario, ma che deve fare un designer che, sinora, si è battuto senza successo per proporre all’industria oggetti e mobili solidi a basso costo che fossero in alternativa al gusto dominante? Deve forse sfasciare il suo tavolo e rinnegare il suo ruolo? Deve tacere, deve smetterla col suo lavoro? Il designer deve invece cercare di battere l’unica strada che gli è praticabile: quella della sfida, della provocazione, chiamando in causa la diretta complicità del pubblico”.
Giulio Argan sottolineò ulteriormente il significato politico della provocazione: “Mari ha una finalità sociale: regala progetti, disegni esecutivi. Si tratta di imparare a pensare con le proprie mani, a fare i propri pensieri, cosicché risulteranno più chiari. Mari ha ragione, tutti devono progettare: in fondo è il modo migliore per evitare di essere progettati”.
Etichetta da apporre al proprio “autoprodotto”.
Enzo Mari dichiarò pubblicamente che avrebbe spedito il libretto di istruzioni per l’autocostruzione, corredato da disegni e fotografie, a chiunque gli avesse inviato i francobolli. In un anno ricevette 5.000 richieste. Di queste, circa 4.000 erano molto burocratiche, del genere faccio riferimento all’articolo di giornale, allego un dollaro per i francobolli, vogliate spedire il libro all’indirizzo indicato. Altre 1.000 erano entusiaste, anche se per i motivi sbagliati e suonavano più o meno così: sei un genio, adoro lo stile rustico, li farò costruire tutti per la mia baita sulle Montagne Rocciose… Ci fu anche chi, presoci gusto, gli chiese i disegni e i dati costruttivi dei suoi mobili di alta fascia, come il celebre tavolo Frate in ferro e cristallo.
“Alla fine – ha raccontato Mari - ne saranno stati prodotti un milione di esemplari. Me li sono trovati spesso alle aste come oggetti di arredamento storicizzati. Io non ho mai incassato una lira, ma la cosa che più mi dispiace è che solo una minoranza ha compreso il senso dell’operazione”.
Va infatti evidenziato come al Maestro premesse soprattutto che la sua proposta non venisse confusa con l’hobby o con la cultura americana del fai da te. L’hobby, per Mari, non è altro che una degradazione della cultura, un fare delle cose a un livello imitativo, senza comprendere profondamente quello che si sta facendo, bensì solo per passatempo, solo per poter dire: l’ho fatto. Invece quella che lui propugnava era (ed è) una ricerca intellettuale, che può essere fatta solo sperimentando direttamente.
“Non si tratta di un ritorno all’Arcadia. L’industria esiste ed è un fatto positivo. Questi oggetti non vogliono essere alternativi agli oggetti dell’industria: la loro realizzazione vuole essere una sorta di esercizio critico della progettazione. L’utilizzatore, nel ripetere l’operazione, che non potrà mai essere una ripetizione pedissequa (non si sono messe le misure sui disegni e nel momento del fare si possono introdurre cambiamenti, varianti) si rende conto delle ragioni strutturali dell’oggetto stesso per cui, in seguito, migliora la propria capacità di valutare criticamente gli oggetti proposti dall’industria”.
Più volte negli anni successivi e fino ai giorni nostri, la Proposta per un’autoprogettazione è stata rievocata in diverse rassegne, segno che il sasso lanciato da Mari continua a smuovere le acque.
In questo senso, la Triennale espone un’opera impressionante dell’artista texano Dozie Kanu, Electric chair, che riprende alcune delle idee illustrate da Enzo Mari, in particolare la democratizzazione del design e la creazione di un’alternativa provocatoria al paradigma capitalista del consumo di massa.
Guardando l’esecuzione di un detenuto di colore in South Carolina, Kanu era stato colpito dalla somiglianza nei tratti dei loro visi e vi trovò un legame con la secolare lotta per l’emancipazione degli afroamericani. Ha così scomposto una sedia elettrica in tre pezzi e, mostrandone l’assemblaggio, intende alludere ai modi in cui “la morte è sistematicamente prodotta e ri-confezionata come fosse auto-costruita e auto-indotta”.
Dozie Kanu – Chair V (Elecric chair) – Marmo, pelle e viti
Chiudiamo riportando quello che Enzo Mari, in un recente dibattito, ha risposto a chi gli chiedeva cosa avesse imparato dalla sua esperienza di artista e di uomo:
“Se la gente avesse il coraggio di prendere a calci i telefonini e cominciasse a lavorare con le mani, ci sarebbero meno crisi economiche nel mondo”.
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