Il mondo alla fine del mondo

Idee

Il mondo alla fine del mondo

| Giuseppe Augurusa

Venti ore separano il nostro convoglio dalla meta, la piccola cittadina polacca di Narol, un Comune del  distretto di Lubaczów, nel voivodato della Precarpazia al confine ucraino. Una durata eccessiva che, alle nostre quotidianità assediate da treni ad alta velocità, dispositivi in bassa frequenza e ansie da ceto medio, richiama viaggi d’altri tempi, irragionevoli nostalgie del si stava meglio quando si stava peggio, malinconiche tradotte estive. Non manca il tempo lungo quei millesettecento chilometri che attraversano un pezzo di Mitteleuropa, carico di un glorioso passato e un contraddittorio presente, per discutere dell’angoscia della guerra, delle speranze della pace, delle inquietudini del futuro. I più attempati tra noi, però, smontano subito la narrazione corrente, quella della guerra nuovamente nel cuore d’Europa dopo il secondo conflitto mondiale. La mente va subito a un altro viaggio, un altro convoglio, altre lunghe code alle dogane. Erano i primi anni novanta ed alcuni tra noi, diversamente intruppati, viaggiavano verso i Balcani. Non era Europa pure quella? “Qui finisce l’Europa” recitava il monito stentoreo come un presagio, scritto sul cartello dell’aeroporto di una Sarajevo assediata per quattro anni dai Serbi. Non era ora come allora? Allora, all’indomani della caduta della cortina di ferro, non ci pareva. Non andiamo oltre nella discussione, soprassediamo perché temiamo che la risposta non ci assolva.

La piccola, ordinata carovana umanitaria costituita da cinque furgoni della CGIL lombarda e delle proprie strutture territoriali di Como, Varese, Milano e Lecco è stracolma della disinteressata generosità altrui con derrate alimentari e beni di prima necessità destinati all’Ucraina. Si disperde, però, già alla periferia dell’area metropolitana milanese, quando le propensioni personali si sostituiscono agli ordini di scuderia e l’eccitazione del viaggio alle raccomandazioni di servizio. Non importa, ci ritroveremo più avanti, a Villach, per la solennità richiesta dal passaggio della frontiera austriaca. Un rito catartico, quest’ultimo, che condividiamo con una lunga colonna militare italiana ben in arnese che il Governo ha appena mandato a presidiare il fronte orientale della NATO: i soldati sono ordinati, compatti, ritmici; la guerra, penso, è anche organizzazione, potenza, disciplina oltre che lacrime e sangue. Mai il viaggio, come abusata metafora della vita, pare più azzeccato: il rischio è inversamente proporzionale alla distanza dalla meta, come intuiscono i viandanti e gli anziani. L’itinerario, fatto ad un tempo di bellezza, difficoltà, imprevisti, si risolve nella morte, come sanno i vecchi e gli eserciti. Così, nel viaggio verso gli egoismi culturali e politici di quelli di Visegrad, scopertisi improvvisamente solidali, attraversiamo l’invidiabile ordine dell’area metropolitana viennese, la bellezza slovacca dei lussureggianti campi dorati coltivati, la sobrietà della campagna polacca sormontata da un cielo azzurro che, accostato sulla linea dell’orizzonte al giallo dei fiori di colza, sembra inconsapevolmente omaggiare gli aggrediti. Ma, si sa, le vie dell’inferno sono lastricate di buone (e belle) intenzioni. Al fondo del viaggio ci attende l’inferno, appunto. Solo simbolicamente, ovviamente. Ce ne stiamo a distanza di sicurezza, perché è giusto, oltreché saggio. Per non aggiungere ai loro problemi i nostri problemi. Per allontanare il sospetto che tra i tanti privilegi occidentali vi sia anche quello di poter dosare a piacimento la propria adrenalina con le tragedie altrui, come il brivido controllato di un bungee jumping qualsiasi.

Arkadiusz Mroczeck ci accoglie con infinita cordialità. Il giovane vice Sindaco di Narol, approdato nella tranquillità della vita agreste dopo molti anni vissuti a Varsavia, è affabile e si fa in quattro per noi, garantendo che il nostro brevissimo soggiorno non manchi di nulla; ci fa da locatore, da cicerone, persino da mentore. Ci omaggia citando Umberto Eco e Tiziano Terzani, anziché la pizza margherita ed il mandolino. Orgoglioso del proprio lavoro, del punto di raccolta viveri che alimenta due ospedali nella vicinissima Ucraina, che ci preoccupiamo di riempire fino all’orlo. Orgoglioso anche della piccola comunità di ottomila anime distribuite su di un territorio diviso con il righello tra Polonia ed Unione Sovietica (poi Ucraina) dopo la seconda guerra mondiale, con l’ovvia conseguenza di chiamare in modo diverso popoli uguali. Ci accompagna nella meravigliosa chiesa ortodossa, sconsacrata per mancanza di praticanti, ora adibita a sala concerti, al cui centro della navata troneggia uno splendido mezza coda nero. A queste latitudini, molto più che alle nostre, le religioni muovono persone, segnano confini, prefigurano scenari. Così, ad esempio, anche la sinagoga è vuota, a causa della malasorte accorsa agli ebrei colpiti dalle inaudite tragedie dei pogrom cosacchi del diciassettesimo secolo prima e dalla shoah nazista dopo.

Anche Magdalena Chojnoska è orgogliosa della solidarietà ritrovata dai propri connazionali. Sindacalista dell’OPZZ, altra opzione al più noto Solidarność, Magdalena è una nostra “vecchia” conoscenza, oramai un’amica. Ha preso il treno da Ząbki, una cittadina alle porte di Varsavia, per non mancare all’appuntamento con gli amici italiani. Tocca a lei smussare i sottili aculei ideologici che ci separano da quel mondo, opportunamente tenuti a bada in nome di un bene superiore. Lo fa con sagacia, capace, forse più di molti uomini, di distinguere l’opportunità dall’opportunismo. Per la foto di rito mi porge il lembo della sua bandiera azzurra, io le cedo lo spigolo di quella rossa, la nostra. Colori che da soli raccontano una storia. Svolge senza esitazione la bandiera arcobaleno della pace, non sempre così apprezzata nella terra dei gemelli Kaczynski. Non è solo un gesto di cortesia: si tratta di cura, di attenzione all’altro, di vicinanza nella differenza. Per gente come noi, sempre in cerca di un illusorio mondo migliore, gente per cui la politica non è mai sacrificabile a un ipocrita galateo delle buone maniere, non è mai ragione del quieto vivere, non è mai la giustificazione dello status quo, omettere è quasi più doloroso che sostenere. La concretezza della solidarietà ti permette di soprassedere sulle differenze privilegiando le cose comuni. Tuttavia, penso, se il meglio è spesso nemico del bene, il bello è indiscutibilmente conseguenza del giusto.

Tre chilometri di camion fermi immobili in attesa di passare il confine ucraino guarniscono l’unica strada per la frontiera di Hrebenne, a quindici chilometri da Narol. Ci arriviamo rubando qualche minuto alla rigorosa tabella di marcia. Superiamo gli sguardi torvi dei camionisti che, pazienti per mestiere, ci guardano straniti. Svoltiamo per un parcheggio laterale prima che la polizia di frontiera valuti l’opzione di fermarci. Inaspettatamente la frontiera è vuota, fa caldo e pare un’oziosa domenica pomeriggio, mentre è solo venerdì. Da settimane, ci aveva spiegato il vice Sindaco, non passano più profughi: chi doveva uscire lo ha già fatto, chi doveva andare via, ricongiungendosi ai propri familiari sparsi in tutta Europa pure.  Molti lo hanno fatto nel corso di un altro esodo, conseguenza di un’altra guerra quotidiana, combattuta contro la diseguaglianza, la povertà, la mancanza di futuro, ben prima che i carrarmati russi oltraggiassero la loro terra. Al contact point dell’Unione europea si inganna il tempo giocando con lo smartphone. Un addetto all’ufficio informazioni per cittadini ucraini, per un istante sedicente vigile urbano, ci aiuta perfino a parcheggiare il grosso furgone. Tutt’intorno la vita scorre come se niente fosse: bambini giocano felici nel cortile della scuola, anziani chiacchierano per le strade, turisti collezionano selfie di cattivo gusto sulla frontiera del mondo occidentale. La guerra così vicina, penso, può essere anche così lontana. Come nel «mondo alla fine del mondo» di Luis Sepulveda “un lembo estremo del pianeta, si trasforma simbolicamente nel luogo dell’apocalisse. Ma può anche essere l’universo in cui l’uomo ritrova l’unione con le proprie origini, l’armonia con gli elementi e, soprattutto, un anelito indistruttibile alla speranza”.

Riposizioniamo il navigatore sulla via del ritorno, venti ore di viaggio ci attendono. Saranno ore più silenziose, perché i pensieri si affastellano. Valentina, segretaria CGIL della spedizione, la sugella con una frase che ci porteremo dentro per molto tempo:”I didn't cross the border. The border crossed me”            

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