Lo guardi da lontano e ti sembra un transatlantico che lotta contro il suo isolamento geografico. Celle di san Vito, delizioso borgo di poco più di cento anime appollaiato sui Monti Dauni, a 726 metri sul livello del mare, e circondato da splendidi boschi, è il più piccolo e spopolato comune della Puglia. In tanti se ne sono andati, chi al nord, chi all'estero. E altri non vedono l'ora di farlo. Un trend inarrestabile certificato pure dall'Istat: alla fine dell'Ottocento Celle contava più di mille abitanti; poi il lento ma costante declino. Qualcuno però ha deciso di restare, e definirlo eroe è tutt'altro che retorico. Il lavoro scarseggia. E se si escludono i pochi privilegiati che sopravvivono in campagna, grazie a qualche azienda agricola di famiglia o con il reddito di cittadinanza, tutti gli altri incassano la pensione. Già, perché Celle non è un paese per giovani. Gli anziani infatti sono la maggioranza, con tutte le conseguenze del caso.
Una delle vie più belle del borgo
Cinema e teatri sembrano luoghi da cartolina. Del bar che animava tanti pomeriggi e serate oggi restano un portone sprangato e la triste sagoma del vecchio bancone, visibile da una finestra appannata. Di asili nemmeno l'ombra, la scuola elementare ha chiuso nel 2007. L'ufficio postale non è aperto tutti giorni, il farmacista si fa vedere due volte a settimana e distribuisce le medicine casa per casa seguendo le indicazioni del medico curante della zona, che a sua volta riceve precise disposizioni via whatsapp dai Cellesi. Lo stesso fa il venditore ambulante, che con il suo camioncino di tanto in tanto offre alla popolazione viveri e altre mercanzie, sempre porta a porta. Per i servizi essenziali bisogna spostarsi a Faeto e a Castelluccio Valmaggiore, ma ci si spinge anche fino a Lucera, percorrendo strade spesso rattoppate. Chi non può guidare si accomoda sul pullmino di linea gestito dal Comune. L'unica tabaccheria rimasta si trascina stancamente, ed è probabile che a breve abbassi definitivamente la saracinesca.
Il vecchio bar, ora chiuso
Il solo esercizio commerciale degno di rilievo è la pizzeria Le Fontanelle, che si trova giusto all'entrata di Celle ed è gestita dalla famiglia Bolognone. L'attuale proprietaria, Patrizia Bolognone, 46 anni, ha trasformato quello che in origine era un forno, aperto nel lontano '83, in un ristorante. Che è pure l'unico punto di ritrovo dei Cellesi, i quali tutti i pomeriggi si incontrano nel gazebo di fronte all'ingresso per fare due chiacchiere e divertirsi con la passatella, un antichissimo gioco da osteria praticato in tutto il sud della penisola. In pratica, i bevitori scelgono un «padrone» e un «sottopadrone» (o «sotto»). Questi poi distribuiscono ai partecipanti il vino o la birra precedentemente acquistati e si assicurano che qualcuno rimanga a bocca asciutta. Il padrone invece può bere quanto vuole, anche se ha bisogno del consenso del «sotto» per far bere gli altri.
Osservarli è uno spettacolo.
La pizzeria Le Fontanelle
I Cellesi che si riuniscono per la consueta passatella
Ma non tutti partecipano a questa movida improvvisata. «Siamo lo scarto della Puglia. È una sfortuna essere nato a Celle di san Vito». Leonardo Nardone, 70 anni, soprannominato baffone, alla passatella non gioca. Meglio rimanere in disparte, con una birra tra le mani, a godersi un po' di frescura estiva. La sua vita l'ha spesa tutta qui, come operatore ecologico, e ora si gode la pensione. Di sposarsi non ne ha voluto sapere: gli basta la compagnia dell'orto e delle sue galline. Leonardo è un tipo scherzoso, ma ci vuole poco per fargli perdere il sorriso. «La verità è che ci sentiamo abbandonati da tutti. Qui non si è fatto mai vedere nessuno», sospira. «Poi però ci chiedono i voti. E le promesse? Chiacchiere che si porta via il vento». Per qualche secondo non apre bocca. Poi, l'affondo: «Una volta questo era un paese agricolo, c'erano gli animali. Ora ci sono solo i vecchi. E quando uno di loro muore, un altro portone si chiude per sempre». Una pugnalata sferrata non per caso: i pochi ragazzi che si vedono a Celle sono gli ultimi superstiti di un popolo che rischia di scomparire. E molti di loro tornano solo in estate per onorare la memoria dei nonni. Durante l'inverno Celle è un mortorio.
Leonardo Nardone, detto baffone
«Noi della pizzeria siamo dei matti». Patrizia appare all'improvviso. Ha ascoltato la nostra conversazione in silenzio e ora vuole dire la sua. «Ci vuole coraggio per mantenere un'impresa familiare come la nostra. Anche perché, a parte i soliti noti, la mia clientela viene da fuori». La pandemia è stata una mazzata. Il ristorante infatti è rimasto chiuso per mesi. «Di asporto non ne abbiamo fatto, i Cellesi non sono abituati». Per andare avanti Patrizia ha dovuto intaccare i suoi risparmi. Eppure rimane a Celle. Perché? Non fai nemmeno in tempo a chiederglielo: «Lo faccio per la mia famiglia. Tutto è cominciato col forno, poi ci siamo ingranditi grazie al sudore dei miei genitori. Non intendo mollare, anche se a volte ne avrei voglia. Perché le tasse devi comunque pagarle, anche quando non guadagni un euro. E da qui se ne vanno tutti».
Patrizia Bolognone, titolare della pizzeria Le Fontanelle
Eppure gli abitanti di Celle di san Vito avrebbero più di un motivo per essere orgogliosi. E potrebbero vivere tranquillamente di turismo. Il borgo infatti è, assieme alla vicina e più rinomata Faeto, l'unica isola linguistica franco-provenzale del meridione, la più piccola delle minoranze linguistiche dopo le comunità arbëreshe di lingua albanese e quella ellofona della Grecìa salentina. La lingua che si parla a Celle, riconosciuta dallo Stato Italiano nel 1999 e dalla Regione Puglia con la legge regionale n.5 del 2012, è traccia viva di una storia lunghissima, che risale alla seconda metà del XIII secolo e agli Angioini. Il toponimo del paese nasce infatti dall'occupazione, da parte delle truppe di Carlo D'Angiò, delle celle del convento di san Vito (che si trovava sull'omonimo monte) dopo la vittoria ottenuta contro i Saraceni a Lucera. Con la bolla del Pontefice Pio V (1566) gli abitanti di Celle e di Faeto vennero poi chiamati provenzali. Ma, come scrive Stefania Mola ne La storia della Puglia in 100 luoghi memorabili (Newton Compton Editori), «la coscienza di appartenere a uno specifico e differente gruppo etnico ha accompagnato la comunità (oggi composta da un migliaio di persone) per diversi secoli. Perché il franco-provenzale, classificato da Graziadio Isaia Ascoli nell’Ottocento come idioma galloromanzo a sé stante, insieme al francese (lingua d’oïl) e all’occitano-provenzale (lingua d’oc), sopravvive in Italia - oltre che qui - solo in Piemonte e Valle d’Aosta, in un’area legata al più cospicuo nucleo localizzato a cavallo tra Francia e Svizzera». In effetti i nomi delle vie di Celle sono rigorosamente bilingui. E l'italiano viene dopo il franco-provenzale».
Un cartello bilingue di Celle di san Vito
Nel punto più alto del borgo si può ammirare la splendida valle del Celone. Ma è una specialità della casa anche il silenzio che si respira tra i vicoli di pietra viva, interrotto dalla voce del vento o dall'odore appetitoso di qualche piatto tipico. L'ospitalità da queste parti è tutto. Gli anziani perpetuano la tradizione: preparano il pranzo, mettono in ordine la casa e piantano la sedia davanti all'uscio per godersi un po' di sole. Chiacchierare in franco-provenzale è un altro rito imperdibile che attira i forestieri.
La valle del Celone
Un altro splendido scorcio di Celle di San Vito
Ma la lingua sopravvive anche grazie all'associazione culturale franco-provenzale presieduta da Silvano Tangi (che ha sede a Torino ma a Celle ha ricavato un piccolo museo privato nei pressi del vecchio monastero), all'infopoint e allo sportello linguistico, gestiti, su mandato del Comune, da un gruppo di ragazze sui vent'anni che si rimboccano quotidianamente le maniche per non disperdere l'immenso patrimonio culturale di quest'isola minuscola eppure tristemente abbandonata a se stessa. Angela D'Aloia, 27 anni, mi accoglie nella casetta di legno che a breve diventerà la sede estiva dell'infopoint. È lei a farmi da Cicerone e a mostrarmi le bellezze del borgo. A cominciare dalla chiesa ottocentesca di santa Caterina e dal museo della Civiltà contadina, che raccoglie fotografie e attrezzi agricoli della Celle del passato. «Guai a chi tocca il mio paese». Lo dice con forza e sembra crederci davvero. Grazie all'infopoint e allo sportello linguistico riesce a mettere in tasca qualche soldo. E non ci pensa proprio ad andarsene. Anche perché le altre ragazze con cui lavora, compresa sua sorella Mara, sono per lei una famiglia. «Non è facile stare qui, ma non posso lasciare la mia casa».
Alcune delle ragazze dell'Infopoint; a destra, Angela D'Aloia
Di fronte all'ufficio postale vive Olga Cupoli, 78 anni, che per molti Cellesi è, assieme al vecchio zio Michele, la memoria storica del paese. Negli anni Cinquanta ha lavorato in un vecchio forno di Celle, che ora è diventato un'abitazione privata. Poi si è data da fare in campagna, come molti dei suoi compaesani. Gran parte della via in cui abita è abbellita dai fiori di cui lei stessa si prende cura. Ogni giorno qualcuno va a trovarla. «Per noi è un po' come lo zucchero», scherza Angela. Olga si regge su un bastone, ma è ancora combattiva. E ai giovani lancia qualche frecciatina: «Ai miei tempi si sgobbava. I ragazzi di oggi se ne vanno, e se restano non vogliono fare niente». La pensa così anche zio Michele, che di cognome fa Martino. Novantasei anni portati alla grande. Dopo aver lavorato in Canada, all'interno di una fonderia, nel '79 è ritornato a Celle e si è spaccato la schiena come bracciante agricolo. Le sue giornate ora le passa seduto su una vecchia panchina. Poche parole, ma lapidarie, che rimandano all'inguaribile fatalismo di questa terra: «Non cambierà mai nulla. Siamo solo noi vecchi a restare. E a morire».
Olga Cupoli, che per molti Cellesi è la memoria storica del paese
Michele Martino, detto zio Michele, è l'uomo più vecchio di Celle di san Vito
Poco distante c'è il Municipio. La sindaca di Celle, Palma Maria Giannini, al suo terzo mandato, mi accoglie nella sua stanza sfoggiando il nuovo dizionario in lingua franco-provenzale (realizzato con il contributo dello sportello linguistico), che utilizza quasi come scudo per difendersi da qualche domanda fin troppo scontata. «Molti Cellesi si lamentano perché non c'è lavoro? Li capisco, ma non possiamo fare molto di più. Grazie allo sportello linguistico riesco a far lavorare alcune ragazze. E chi percepisce il reddito di cittadinanza si dà comunque da fare». Una piccola pausa, poi riprende: «Non siamo nemmeno isolati come sostiene qualcuno. Se non fosse per i finanziamenti della Regione, non potremmo portare avanti le nostre iniziative culturali». E chiede anche un aiuto al governo: «Dovrebbe fare di più. Per esempio: perché a noi lascia solo le briciole dell'IMU sulle pale eoliche? Sarebbe già qualcosa».
Palma Maria Giannini, sindaco di Celle di san Vito. È al suo terzo mandato
Un altro portone intanto si chiude. E si spera che non sia per sempre. Anche se. per uno che resta, altri due se ne andranno.
Una delle caratteristiche case in pietra di Celle di san Vito
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