Tanto Pasolini da affogarci dentro? Potrebbe pure essere una morte affascinante, se non fosse che le acque non sono sempre limpide e una parte dei riferimenti, degli omaggi, delle chiacchiere intorno a questo centenario sono superficiali e qualche volta anche in malafede. In mezzo a tantissime iniziative entusiaste e interessanti e dettate da vera passione, ce ne sono alcune quantomeno sospette.
Nessuno – sia chiaro – ha la supremazia su niente e, in definitiva, forse l’importante è parlarne in un modo o in un altro; poi, anche laddove la superficialità è manifesta, va anche detto che conoscere l’opera di Pasolini nella sua interezza è praticamente impossibile, se non forse per chi ha deciso di dedicargli interamente la vita.
Pasolini è una letteratura a sé e di per sé, un po’ come quella di Dante potremmo dire, o il teatro di Shakespeare (tanto e solo per fare degli esempi nobili…) e tutti quelli che continuano a denigrare, ridimensionare, mistificare, raccontare a modo loro la sua opera e la sua vita devono rassegnarsi: l’unica cosa sicura rispetto a Pasolini è che il suo immenso lavoro artistico e intellettuale rimarrà per sempre e saranno poetica e storia, italiane ed europee. La certezza arriva dal fatto che proprio i “difetti” che vengono rimproverati al suo lavoro sono quelli che lo rendono immortale. Il suo Cinema ad esempio, così pittorico, è difficilmente imitabile e resta unico. La sua poesia, che forse ha tanti riferimenti classici ma che è così diversa in ogni passaggio della sua vita, è stata altrettanto poco imitabile. Per questo resta unica e irripetibile. Sono solo due esempi e nessuno qui vuole infilarsi in discorsi sullo stile, perché non è argomento che compete a chi scrive questo articolo. È solo una prima riflessione sul fatto che ogni tentativo di imitazione pedissequa della sua opera non può che fallire. Ma è proprio questa una delle cose (non l’unica ovviamente) che rende immortale un autore.
Ma al di là di tutto, il tanto parlare, lo scrivere in bene e in male, con cognizione di causa o per sentito dire, il rappresentare e anche il cantare, spinge ad una riflessione - al lato della grande opera - su quello che è stato ed è tuttora il rapporto tra Pasolini e chi lo incontra. Il Poeta ci ha raccontato la sua visione del Mondo. Ma come il Mondo ha visto il Poeta?
Pasolini secondo il Mondo potremmo dire, o secondo l’Italia, o, ancora, secondo l’opinione pubblica italiana. Secondo i passanti che si attengono alla vulgata su di lui (visionario quando va bene, “marchettaro” quando va male), secondo gli intellettuali, i letterati, gli artisti: potremmo allungare all’infinito l’elenco.
Una prima considerazione da fare è che Pier Paolo Pasolini è finito per diventare una icona pop – come Che Guevara o Marilyn Monroe – e questa evoluzione è paradossale, se consideriamo il suo messaggio negativo e addirittura apocalittico in merito alla società di massa e dei consumi. Di certo è diventato una icona pop anche negativa: per alcuni incarna il male, la diversità morbosa, il non risolto: se c’è qualcosa che l’uomo “normale” non accetta non è tanto la diversità in sé, non è tanto la contrapposizione, ma il mancato riconoscimento di un modello; quando andiamo “contro”, infatti, in qualche maniera stiamo accettando quel modello. Ma Pasolini non si limitava ad andare contro quel modello: Pasolini si poneva proprio di lato, su un’altra scala. Quando per esempio si scagliava contro i giovani universitari di Valle Giulia – raramente un passaggio scritto è stato più frainteso – e sosteneva di essere dalla parte, di simpatizzare con i giovani poliziotti, figli di proletari, egli non stava operando una scelta politica tra due fazioni contrapposte, ma tentava di spiegare ai giovani universitari che il loro modo di fare era ben lungi dall’essere rivoluzionario e si inseriva, invece, perfettamente nel sistema borghese che stava distruggendo antropologicamente il mondo e la società. Pasolini, in poche parole, invitava quei giovani a porsi al di fuori di quel modello, cercando di spiegar loro che la rivoluzione, quella vera, non indossava quegli abiti violenti e scimmiottanti le “divise” dei padri.
Questo modo di ragionare era difficile da comprendere anche dalle menti più prestigiose e non poteva essere accettato. La cosa interessante è che non viene accettato neanche adesso, proprio ora che quel processo da lui descritto si è compiuto definitivamente. Addirittura c’è oggi chi considera perdente Pasolini proprio perché, essendosi compiuta quella distruzione che lui vaticinava, il suo discorso intellettuale è ormai inservibile. Una maniera di ragionare paradossale (di nuovo un paradosso!) che si basa su un modello intellettuale ancora una volta borghese, del vincere e del perdere, e non del vivere, dell’osservare, del correggere casomai, dello studiare, dell’indagare. Quello che conta è poter dire: Pasolini ha perso, il suo discorso è inattuale, la sua poesia è inservibile, il suo cinema imperfetto, la sua vita malata. E poterlo dire con quel tanto di morbosità invidiosa, bigotta e impicciona che la piccola borghesia ha imparato a mimetizzare dietro le dotte parole degli intellettuali e dei poeti di oggi.
Ma questa è solo una parte del discorso.
Dall’altra invece troviamo la citazione manipolatoria, la rilettura utilitaristica, la trasformazione di una vita in una icona, appunto, senza passato, senza presente, senza futuro, come un poster qualunque attaccato a una parete, come la Gioconda che beve una birra d’estate o si arriccia i capelli.
Certo: lo stesso Pasolini, vagheggiando un mondo “mitico” che non esiste più e forse non è neanche mai esistito (un po’ come il mito del “buon selvaggio”) era consapevole che la sua era una battaglia perduta. Eppure il suo compito era dire, denunciare, gridare, come un’epica Cassandra. Perché? Il perché lo ha ripetuto in continuazione: perché era un intellettuale, perché era un artista, perché era un poeta. E non poteva fare altrimenti. Anzi, doveva farlo utilizzando tutti gli strumenti in suo possesso: era il suo compito, la sua ragione d’essere. In una intervista radiofonica egli spiegò che la poesia ha come unico scopo la libera espressione del poeta, anche laddove la medesima è scarsa, anche quando si occupa di fiorellini. Quindi Pasolini non teorizzava l’arte militante.
Ma la faceva, a modo suo. E non può certo stupire, trattandosi della storia di un uomo che si contraddiceva continuamente e così facendo mostrava la sua coerenza e la sua inossidabile onestà intellettuale: la faceva con la coerenza di chi magari cambia idea ma sta sempre dalla stessa parte, spesso scomoda.
Pasolini amava un Dio in cui però coerentemente non credeva e restò sempre senza sconti un comunista, malgrado i comunisti filo-titini gli avessero ammazzato il fratello e, dopo, gli altri lo avessero cacciato con ignominia dal Partito senza nemmeno aspettare che le accuse – accuse fatte a un ragazzo – venissero o meno confermate.
Cosa resta davvero di tutto questo è, come è evidente, difficile da capire e lo si può fare solo attraverso gli occhi di altri.
Degli amici innanzitutto.
Pier Paolo Pasolini aveva dell’amicizia una concezione antica e nobile. In un’intervista radiofonica della fine degli anni Sessanta parla dei suoi amici “romani”, come Elsa Morante o Alberto Moravia, con voce tenera, con grande ammirazione, con gratitudine. E in effetti doveva molto a molti amici, come per esempio ad Attilio Bertolucci, che per lui usò sempre parole dolcissime e lo aiutò per la pubblicazione di “Ragazzi di vita”, quando emigrato a Roma era quasi alla fame e si sbatteva da una periferia all’altra ad insegnare per pochi soldi, scoprendo così l’incredibile mondo delle borgate, di questo meridione, di questo spaccato umano “quasi da Terzo Mondo”, come spiegò in un’intervista rilasciata ad Achille Millo, sempre per la radio, nel 1967. E se tanto Pasolini doveva agli amici, altrettanto gli amici dovevano a lui, al suo amore e alla sua stima, come per esempio un altro grande poeta italiano, Sandro Penna. Basta poi sfogliare le sue lettere – raccolte peraltro proprio in questi mesi con molti inediti e la grande cura di Antonella Giordano e Nico Naldini in una nuova edizione Garzanti – per scoprire il suo mondo fantastico di amici, a partire da quelli della sua vita bolognese, liceale e universitaria: un mondo dove la vita si confonde con la letteratura, dove versi, riflessioni sull’arte e sulla musica si mescolano quasi per magia con il calcio, i palloni da comprare e spedire e le ragazze con cui finiva per non combinare mai nulla (di ragazze parlava Pasolini ai suoi amici lontani mentre si trovava in Friuli, e quanta tenerezza a pensare al pudore e alla sofferenza che scrivere quelle parole doveva costare ad un ragazzo giovanissimo costretto a nascondersi in pieno fascismo e in piena guerra). E poi ci sono gli amici dell’altra sua vita, quella romana appunto: i fratelli Citti e Sergio “il filosofo” in particolare, suo costante angelo custode dall’incontro fino alla morte. Su Ninetto Davoli il discorso era diverso, perché quello è stato per Pasolini un grande amore.
Ad ogni modo, la costante del racconto su Pasolini da parte degli amici è la seguente: Pier Paolo viene descritto come un uomo gentile, mite, mai violento, mai aggressivo, sempre paziente, pronto a spiegare e insegnare; questo in particolare lo raccontano bene gli amici più giovani, come David Grieco, o Bernardo Bertolucci, o Vincenzo Cerami, tanto per fare tre nomi. Malgrado le parole spesso feroci da eretico e corsaro, malgrado la critica totale e visionaria, malgrado le frasi durissime contro la gioventù borghese, era sempre pronto al confronto e in quel suo modo di essere sempre felicemente in contraddizione, Pasolini amava quei ragazzi e ci sperava in qualche modo, come un padre; se quindi il PCI era deludente, dal mondo della FGCI era attratto: ne seguiva i dibattiti, accettava gli inviti alle manifestazioni e alle battaglie. E quei giovani comunisti lo amavano e lo rispettavano, ne comprendevano lo spirito intimamente rivoluzionario. È questo un passaggio interessante del nostro discorso, perché chi ha veramente compreso Pasolini lo ha fatto prima di tutto in modo emozionale, riconoscendo al poeta il carisma dell’ispirazione, della vitalità non necessariamente sempre disperata, della ricerca, della forza profetica delle sue parole, della carica dirompente e sperimentale del suo cinema. E a riuscirci non sono tanto gli amici letterati che pure lo amavano ma non riuscivano a comprendere fino in fondo il discorso, che consideravano spesso oltre le righe, ma i suoi ragazzi di vita innanzitutto e poi una parte dei ragazzi inquadrati nel grande spazio della Federazione giovanile del Partito Comunista; e infine altre due “categorie” umane: le donne della sua vita e gli artisti.
Dacia Maraini ha scritto un libro toccante e coinvolgente, “Caro Pier Paolo” (Neri Pozza editore): in forma epistolare l’autrice rivolge all’amico mille domande e ricompone tanti momenti sospesi; fa un viaggio nella memoria, con la complicità di sogni notturni, durante i quali il poeta arriva a chiedere ancora risposte. Ne esce fuori non solo lo spaccato di un’epoca e di un determinato milieu sociale, ma anche un ritratto fortissimo, felice e inequivoco di Pasolini, che per Maraini è stato compagno di viaggio – e che incredibili viaggi nel mondo! – è stato compagno di lavoro, è stato grande amico, è stato anche vicino di casa al mare, anzi, contiguo. E se da una parte - da intellettuale a intellettuale - non sconta nulla al vecchio sodale, dall’altra ne sa raccontare tutta la fragilità, la delicatezza, la sensibilità, anche l’infantilismo delle volte nella sua scelta obbligata di rimanere sempre figlio. Soprattutto ne descrive a fondo la mitezza e la dolcezza. E la lettura di questo volumetto ci aiuta anche a decifrare meglio il rapporto con sua madre Susanna, con Maria Callas, con Laura Betti. La prima ce la spiega già bene lui in “Supplica a mia madre”, che non è solo una dichiarazione d’amore: è anche e soprattutto una disperata presa di coscienza, una dolorosa presa d’atto di quello che in definitiva è stato anche un grande limite. Maraini invece dice che Laura Betti quasi lo volesse contenere e divorare. Sappiamo come l’attrice emiliana abbia amato e sostenuto fino alla morte il suo amico Pier Paolo. Con lui andava a ballare il tango e riempiva parte delle notti romane; era la sua musa e la sua migliore interprete; ne conosceva a fondo le debolezze che non giudicava mai. Maria Callas si è innamorata addirittura di Pier Paolo, proprio per il rispetto, la gentilezza, la delicatezza con cui, tanto per cambiare, era stata trattata. Ancora una volta ne esce fuori l’immagine e l’idea di un uomo gentile e sensibile. Non è certo l’unica donna ad averlo amato; anche le grandi amiche degli anni del Friuli, tra la guerra e il dopoguerra, a partire dalla violinista slovena Pina Kalc che gli fa scoprire Bach e con la quale organizza concerti, teatro e scrive villotte; c’è poi la grande amica e poetessa Giovanna Bemporad, che tante volte lo mette in imbarazzo a Casarsa per i comportamenti anticonformisti, e infine l’editrice Silvana Mauri, la più vicina a fare innamorare il poeta: si tratta di storie e amicizie bellissime, di corrispondenze toccanti, dove la costante principale è l’amore e l’intima condivisione. Per ultima l’amica intellettuale per eccellenza, con cui sembra Pasolini litigasse tutti i giorni, o meglio, lei litigava con lui su ogni argomento possibile: naturalmente ci si riferisce ad Elsa Morante, con la quale Pier Paolo condivideva in maniera totalizzante un intero mondo culturale; il loro è stato un grande sodalizio umano e intellettuale. L’intimità che l’artista bolognese riusciva a costruire con queste figure femminili – ma anche l’istintiva fiducia e stima di un’attrice come Anna Magnani, che arrivava da un milieu sociale diverso e soprattutto da una storia personale diversa – è data probabilmente proprio dall’approccio iniziale non competitivo e non razionale, ma intimamente femminile; senza scomodare natura e scienza, non è difficile capire come queste donne siano state amiche, amanti (seppure in modo platonico), madri e sorelle. Un discorso a parte andrebbe poi fatto su Graziella Chiarcossi, la cugina che difende tuttora la sua eredità culturale, artistica e intellettuale.
In ultimo – e non a caso – gli artisti: Pasolini era prima di ogni altra cosa un artista, un artista totale, curioso di ogni forma d’arte; ha scritto i primi versi a sette anni, era un pittore e lo si vede bene nei suoi film; era un narratore anche oralmente: chiunque lo abbia sentito parlare racconta del suo carisma, della sua capacità di incantare qualsiasi interlocutore; la sua ribellione vitale è il primo movimento interiore che gli artisti hanno percepito in lui e che continuano a percepire e ritrasmettere, reinterpretare, rileggere. Spesso quei calci, quelle botte fino a ucciderlo, questi artisti li sentono su di loro. In musica ad esempio – e considerando che Pasolini l’amava e dichiarò in “Poeta delle ceneri” che avrebbe voluto essere scrittore di musica, ma non lo era e il discorso, quindi, resta al margine del suo grandissimo lavoro – tutto questo esiste già con lui in vita; sono tanti gli artisti che lo avvicinano o che collaborano in maniera felice, da Sergio Endrigo a Ettore de Carolis, da Modugno a Morricone, passando per Umiliani e Piccioni che hanno musicato alcune sue canzonette. Dopo la sua morte, a partire da Giovanna Marini, passando per Francesco De Gregori, Fabrizio De André, Pino Marino, Michele Gazich, Flavio Giurato, Bianca Giovannini, sono stati numerosissimi i compositori e i cantautori - e non accennano a smettere - a trovare, nella sua figura e nella sua opera, fonte di ispirazione e creatività, ma anche modello esistenziale. E questo avviene anche a livello internazionale, come per esempio nel caso di Morissey che a Pasolini ha dedicato una canzone; anche questa volta è evidente come l’approccio sia emozionale e nasca da una corrispondenza di anime e non da una ricerca di parole e casomai contraddizioni.
Ed è forse l’unica ragione per cui un poeta non può morire mai.
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