Il rombo si dilata e si comprime, a seconda dei punti di vista, con un andamento che ricorda la riproposizione alla moviola di uno schema calcistico. Attenzione però: qui il pallone non c’entra. A prendersi la scena, infatti, non è una squadra vogliosa di disegnare le sue trame sul rettangolo verde ma il Novecento italiano, raccontato nella sua veste più disincantata da quattro fuoriclasse che, attraverso la loro arte, hanno vagheggiato il sogno di un nuovo Umanesimo, lasciando un’impronta indelebile nelle generazioni successive.
A metterli l’uno di fronte all’altro è una ricerca molto interessante di Annibale Gagliani, che nel suo saggio Impegno e disincanto in Pasolini, De André, Gaber e R. Gaetano (I Quaderni del Bardo, 297 pag., 15 euro) ha scelto di lasciarsi guidare dalla fiaccola dell’eresia. È questa infatti, secondo lo scrittore, la caratteristica principale che accomuna figure tra loro diversissime, eppure capaci di demolire con la stessa franchezza i miti del proprio tempo e, in particolare, i demoni della società dei consumi.
Annibale Gagliani
Nel rombo narrante concepito da Gagliani, Pier Paolo Pasolini è il primo anello di una catena che attraversa la seconda metà del secolo scorso e incrocia i destini di Fabrizio De André - «il poeta dei carruggi» - e Giorgio Gaber - «il filosofo ignorante» ferocemente critico nei confronti di una cultura sempre più degradata a industria e ribattezzato, non a caso, «l’Adorno del Giambellino» (sono infatti fortissimi nei suoi monologhi musicali gli echi della Scuola di Francoforte) - per poi concludere il suo percorso con le ballate graffianti e ironiche di Rino Gaetano, ingiustamente bollato come cantore del nonsense e che qui viene restituito alla sua dimensione più autentica di «poeta del senso interiore».
Uno schema tutt’altro che casuale. Il racconto di Gagliani è un banchetto per nulla improvvisato durante il quale ci si guarda negli occhi e si passa il testimone. Se Pasolini, «il cardine del disincanto italiano», getta il seme del suo pensiero eretico già nelle borgate romane (Ragazzi di vita risale al 1955) e nei decenni successivi lavora ai fianchi la società borghese (di cui viene demolita ogni certezza) e il mito illusorio del ’68 (è questo infatti il nerbo concettuale degli Scritti Corsari e delle Lettere Luterane), spetta a Fabrizio De André il compito di farsi megafono delle suggestioni di Pasolini attraverso il timbro poetico della sua chanson di origine popolare, che canta il dolore dei diseredati oscillando tra cultura alta e dialettale (per Pasolini il dialetto è l’ultimo scudo da opporre all’omologazione della lingua e dei costumi) .
Ma gli echi delle riflessioni pasoliniane vengono riproposti anche nella filosofia musicale di Gaber, che nei suoi spettacoli teatrali mette in scena la supremazia della parola e si scaglia senza pietà contro quel «fascismo dei consumi» che Pasolini aveva intravisto con largo anticipo (si riascolti, per esempio, il brano L’obeso). Chiudono il cerchio i versi dissacranti e scanzonati di Rino Gaetano: valgano per tutti il brano straordinario Gianna, che affronta il tema della rivoluzione dei costumi facendosi beffe del bigottismo imperante, e Aida, indimenticabile epitaffio su note di un Novecento sostanzialmente irrisolto che fa del cantautore calabrese l’ultimo erede di «un’epopea del tricolore» ancora tremendamente attuale, soprattutto in un’epoca che sembra aver smarrito i suoi modelli.
È questo l’insegnamento più importante del saggio di Gagliani. E il suo merito sta nell’averci fatto capire perché, a distanza di tanti anni, vale la pena di tornare indietro per rileggere chi ha ancora qualcosa da dire.
Impegno e disincanto in Pasolini, De André, Gaber e R. Gaetano
di Annibale Gagliani
I Quaderni del Bardo - 2019
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