Padre cubano e madre italiana, Alba de Céspedes comincia a scrivere nel '34, a ventitré anni, per Il Messaggero, e quattro anni dopo firma Nessuno torna indietro (pubblicato dall'editore Arnoldo Mondadori, amico dell'autrice, e ostacolato dal regime fascista, che voleva ritirarlo dalla circolazione. Mondadori, però, si oppose). Tradotto in ventidue lingue, il libro delinea l'individualità delle protagoniste senza vincoli moralistici o tentazioni di esemplarità (“Inedita, in particolare, è la totale mancanza di giudizio, implicito o esplicito, sui percorsi delle otto ragazze”) e conosce da subito un eccezionale successo: “Ci sono tratti in questo libro da impressionare anche un vecchio lettore di libri come me” scrive Silvio Benco.
Alba De Céspedes
Romanzo di formazione portato sullo schermo da Alessandro Blasetti nel '45 (con, tra gli altri, Valentina Cortese, Doris Duranti, Maria Mercader e Vittorio De Sica), Nessuno torna indietro racconta appunto la storia di otto ragazze (Anna, Augusta, Emanuela, Milly, Xenia, Silvia, Valentina, Vinca), ospiti paganti del collegio Grimaldi di Roma tra l'autunno del '34 e l'estate del '36. In collegio c'è anche Cloe, che studia canto lirico e a un certo punto, senza dir niente a nessuno, se ne va: e le ragazze gettano uno sguardo, orgogliose, ai manifesti del teatro dell'Opera, dove l'altra figura tra gli interpreti in cartellone (come la giovane soprano Cloe Elmo, attiva a Roma in questi stessi anni).
Escludendo la pianista Milly, malata di cuore, che muore quasi all'inizio dopo una storia d'amore con un organista cieco conosciuto a Milano (relazione troncata sul nascere dal padre, che ha spedito la figlia al Grimaldi), la prima a lasciare il mondo chiuso del collegio è però Xenia, Xenia Costantini, la straniera: che non riesce a ottenere la laurea, piuttosto che tornare al paese s'ammazza e non avendo un soldo (“Per farmi studiare papà ha ipotecato la vigna”) prima di scappare ruba. E ruba a Emanuela Andori, l'ultima arrivata, di Firenze: molto bella e ricca, è un po' un mistero che ci faccia al Grimaldi, a mangiare zuppa di cavoli con noialtre...
I suoi sono in viaggio, in America, pare; ma nel convento affacciato sui platani di Villa Borghese la Andori non può fare a meno di sembrare un po' di passaggio; come la stessa Xenia, diversa e aliena dalla nascita (con quel nome di origine russa davanti al quale al paese c'era chi diceva: Bello, oppure: Brutto; ma, insomma, dicevano qualcosa).
O, anche, come Vinca Ortiz, l'unica a vivere apertamente e quasi a esibire davanti allo sguardo nervoso delle suore la sua passione per Luis, pure lui andaluso a Roma negli anni della guerra civile spagnola. Vinca, che una volta partito il fidanzato degli anni romani - ansioso di far la sua parte nel conflitto - lascerà il Grimaldi per non farvi più ritorno.
Che sei venuta a fare? chiede alla Andori Silvia Custo, l'intellettuale del gruppo e un po' la coscienza di tutte (“Silvia si lavava poco, non era bella, ma diceva sempre cose giuste: anche se, spesso, erano cose sgradevoli”), la prima sera che la nuova del 28 raggiunge le altre al 63, la camera appunto di Silvia: una camera che odora di fichi secchi imbottiti, gli stessi che la ragazza riceve dalla Calabria, in grandi cesti poi piazzati sull'armadio da cui le compagne attingono liberamente. Silvia ha i fichi secchi, Augusta i tappeti intrecciati a mano, Anna le caldarroste, Vinca i ventagli andalusi, Emanuela un anello con uno smeraldo nascosto in uno scatolino... L'anonima austerità del collegio, anno dopo anno scompigliata dall'intrusione delle giovani pensionanti, ciascuna col suo bagaglio (il fagotto che Xenia si porterà dietro sul treno per Milano).
Siete voi che m'avete invitata, e Valentina m'ha detto di salire al 63. Me ne vado subito, risponde Emanuela, risentita, adeguandosi al gergo delle altre che indicano le rispettive stanze col numero dipinto sulla porta, un po' come il civico di un'abitazione, o il numero di un binario. Ma Silvia non le dà tregua: “Sciocca! Volevo dire: che sei venuta a fare, in collegio?”.
Emanuela, che a Roma ha una figlia, Stefania, pure lei in un convento di suore lontano, verso Monte Mario (la figlia della colpa, nata dalla relazione con Stefano, aviatore morto in volo), di fronte allo sguardo indagatore di Silvia non trova di meglio che ribadire un po' fiaccamente le invenzioni che s'è cucita addosso: studio, come voi, sono a Roma perché i miei viaggiano, in America. Suscitando l'invidia di alcune (devono aver molti soldi, è la chiosa ad esempio di Valentina) e la pensosa presa d'atto di Silvia (“Adesso comincio a capire”).
Emanuela, che con la figlia Stefania, sepolta in un'esistenza parallela, sembra non aver nulla da dirsi pur avendo lottato con ostinazione per starle accanto, dopo i primi anni trascorsi lontane: separazione impostale con fermezza e una certa miopia dal padre anziano, nella speranza che la ragazza, a poco a poco, dimenticasse la figlia e quest'ultima potesse esser affidata a un orfanotrofio (soluzione abbastanza corrente all'epoca per le ragazze madri di buona famiglia, che così avrebbero potuto rimettersi al punto di partenza).
Una scena del film di Alessandro Blasetti (1945)
Accade così che nel libro della de Céspedes prenda campo un potenziale melodramma (con questa bimba nata da un padre defunto prima di poter impalmare la protagonista, salvandone l'onore; e con la separazione tra madre e figlia, con ricongiunzione finale) che naturalmente è qualcosa di completamente diverso. Perché Emanuela e Stefania sono due esseri distinti; l'amore materno - come quello dei figli, d'altronde - può non esser scontato ma aver bisogno di tempo, vicinanza, costruzione; e quella lunga lontananza imposta senza un perché (“È deciso così, Emanuela”) ne ha, forse, incrinato per sempre le basi. Con quei dialoghi impacciati (Che mi porti? Che ti porto?) nel silenzio assolato del convento di Monte Mario; e la lunga catena di domeniche trascorse in queste visite brevi, finite le quali Emanuela si scrolla di dosso la maschera di ragazza madre per indossar con sollievo quella della ragazza da marito.
A Roma infatti la nuova del 28 s'è fidanzata con Andrea, laureando in Lettere e aspirante scrittore: che non sa nulla della storia passata della ragazza e sul comodino ha una fotografia di lei a passeggio per Firenze, scattata a suo tempo da Stefano (“Emanuela rifletté che ormai, nella sua vita, passato e presente erano indissolubilmente intrecciati”).
Una catena di bugie che a un certo punto si spezza: “Non sono più che una sola persona”, pensa Emanuela, vedova di Stefano, collegiale ingenua, madre, fidanzata, promessa sposa, ladra, come infine la chiama Augusta con voce soffocata, torbida, dopo averla schiaffeggiata duramente assieme all'altro giudice di questo tribunale improvvisato, Valentina.
Informate da Andrea su come stiano le cose (a un passo dalle nozze Emanuela s'è confidata col futuro sposo, che l'ha lasciata), le due compagne accusano la ragazza d'avergli sempre mentito, respingendola e costringendola a lasciare l'atmosfera sospesa del Grimaldi per abbracciare, infine, un'esistenza più coerente. Ricchissima dopo la morte improvvisa del padre, Emanuela (a mente fredda alquanto sollevata all'idea d'esser scampata all'esistenza piccolo borghese col fidanzato moralista, conformista, ma noioso, soprattutto) si porterà via la figlia, iniziando con lei - e con la governante assunta per star dietro alla bambina - un'esistenza lussuosa e cosmopolita dove mentire non sarà più necessario, anche perché nessuno farà più domande: “Lady Armilda l'aveva presentata ai suoi amici, dicendo soltanto: È la madre di quella bambina”.
Diverso il finale scelto da Blasetti per il suo film, con Emanuela riassorbita nel ruolo di moglie e madre grazie a un uomo che a differenza del personaggio del romanzo ne accetta il passato, sposandola. E a un tempo simile e completamente diversa, nel libro, la sorte di Xenia, fuggita a Milano senza un soldo e, dopo varie traversie, consegnata anche lei al ruolo di gentildonna facoltosa senza un passato (o meglio, con un passato fittizio costruito di sana pianta) dal ricchissimo uomo d'affari Raimondo Horsch.
Molto più anziano di lei e già sposato, quest'ultimo ne diviene l'amante, plasmandole un futuro che per sostenersi ha bisogno di una costante impalcatura di menzogne. Protetta dall'improvvisa indipendenza economica, quindi, Emanuela condurrà una vita libera scrollandosi di dosso le bugie; le stesse che consentiranno alla contessa Xenia, nata povera, di raggiungere a sua volta la libertà dal bisogno e un nuovo status - anche se non la libertà tout court, visto che il brillante presente è comunque vincolato alla presenza di Horsch.
Unico cedimento, quando la ragazza, in vacanza in Costa Azzurra, conosce il giovane Maurice: al quale non ha voglia di raccontare la storia insegnatale dal ricco pigmalione (“Gli parlò invece del suo paese, e dei pioppi che crescevano davanti alla casa”). E dal quale Xenia fugge, per la prima volta in vita sua tentata di lasciar tutto per amore: l'amore che è anche quel felice appagamento dei sensi che lei, amante incerta e affamata prima del velleitario Dino e poi di Horsch, non ha mai conosciuto.
Inoltre il film di Blasetti sopprime il personaggio di Augusta, la più anziana del gruppo: vicina ai quaranta, alloggia ormai da anni al Grimaldi e le suore chiudono un occhio sulla tartaruga Margherita che sonnecchia sotto il letto, le sigarette e le bottiglie di liquore nascoste nell'armadio, nella speranza che un giorno Augusta decida di fermarsi per sempre, abbracciando il velo.
Alba De Céspedes
Animata da aspirazioni autoriali nel libro, che la vede firmare una serie di romanzi e racconti sempre respinti dagli editori, la donna sarà infine la sola del gruppo a restare al Grimaldi assieme alla più giovane delle otto, Valentina, amica fin dall'infanzia di un'altra collegiale, Anna Bortone: vengono entrambe da un piccolo paese nell'entroterra pugliese, lo stesso che le accoglie ogni estate al rientro per le vacanze.
Ma, a differenza di Anna, figlia unica di un ricco proprietario terriero con velleità cittadine e imprenditoriali (il progressocomincia a farsi sentire, e comunque costante nel libro è il sottotesto economico), quand'è a casa Valentina deve vedersela con le allusioni volgari e l'esistenza miserabile imposta a lei e alla madre dagli zii, i fratelli del padre, dopo la morte di quest'ultimo: le terre, in effetti, apparterrebbero adesso di diritto anche alla vedova e alla figlia del defunto, ma i maschi di casa sembrano ignorare questo dato.
Incline ad attribuire ogni delusione alle differenze di ceto e di censo e oppressa dall'incombere di un futuro che non ha scelto, ma che le si è offerto come la più rapida via d'uscita per lei e per la madre (la laurea in Lettere e, poi, l'insegnamento in qualche aula gelida, con i ragazzi che anno dopo anno deridono la signorina), Valentina finirà per stringere con Augusta un'amicizia esclusiva che le vede, nel finale, rintanate al Grimaldi come animali feriti e incattiviti (il processo cui le due sottopongono Emanuela, spingendola a lasciare il collegio).
Mentre Anna, con grande disappunto del padre, don Alfonso, e della madre, donna Matilde, entrambi proiettati verso un'esistenza cittadina (il padre ha in corso una combinazione con certi imprenditori di Milano, che però lo considerano trascurabile), avendo nel sangue le aspirazioni dei suoi antenati dopo la laurea sposerà il vicino di casa Mario Aponte, stabilendosi definitivamente in campagna e disattendendo le aspirazioni alto borghesi dei genitori. Tra le scene più feroci del libro, il rientro a casa della ragazza dopo i mesi trascorsi in collegio, col vecchio tinello dalle seggiole impagliate trasformato in sala da pranzo con tanto di radio e mobili in acero bianco...
Nessuno torna indietro
di Alba De Céspedes
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