Shirley Jackson nacque a San Francisco il 14 dicembre 1916 e raggiunse la notorietà con la gothic novel La lotteria (1948, ispirata alla desolata permanenza nel villaggio di Bennington, nel Vermont, dove la scrittrice s'era trasferita al seguito del marito, docente presso la locale università) e, poi, col romanzo L'incubo di Hill House. Dato alle stampe nel '56, quest'ultimo è considerato uno dei più famosi racconti di fantasmi del Novecento, insieme a Giro di vite di Henry James, anch'esso giocato sull'allucinata convivenza di una giovane donna e dei suoi compagni di prigionia in una magione di campagna isolata dal mondo e schivata come la peste dai villici della zona.
La prima edizione di The Haunting of Hill House
Nel racconto di James (come poi, in parte, ne L'incubo di Hill House) il progressivo e via via più spavaldo materializzarsi delle entità ultraterrene è costantemente accompagnato dal dubbio; e l'ipotesi che si fa strada nell'opinione dei personaggi e, per conseguenza, degli stessi lettori è che gli ectoplasmi possano essere un'emanazione della psiche repressa e frammentata della protagonista.
Nella storia della Jackson del '56 (portata sullo schermo da Robert Wise nel '63 e da Jan de Bont nel '99, e nel 2018 trasposta per una serie Netflix), Eleonor Vance, la protagonista - che è anche una sorta di voce narrante, grazie al costante ricorso dell'autrice al discorso indiretto libero - appare reduce da una decennale e logorante assistenza alla madre inferma: che è morta da poco, lasciandola sola al mondo, fatta eccezione per una sorella sposata e alquanto gretta, che fa dormire Eleonor su una branda in anticamera e le contesta l'uso della macchina (acquistata assieme!) per il viaggio fino a Hill House. Con l'aggravante di un insopportabile cognato, pronto ad avanzar dubbi sull'onestà del professor Montague, l'ospite di Hill House, e, più in generale, sull'opportunità dell'andarsene in giro da sola per una giovane donna inesperta.
Sottratta l'auto allo spuntar dell'alba, la trentaduenne Eleonor si avvierà dunque col cuore in gola (la tensione e lo star sulle spine che l'accompagneranno per tutto il libro) alla volta della casa infestata: dov'è stata convocata per un esperimento - o meglio, per una sorta di tentativo di rilevazione delle creature ultraterrene annidate tra le pareti - appunto dal professor John Montague, laureato in antropologia. Che aveva preso il dottorato con l'oscura sensazione che in quel campo si sarebbe avvicinato il più possibile alla sua vocazione autentica, l'analisi dei fenomeni paranormali; e che, ispirandosi ai metodi degli intrepidi cacciatori di fantasmi ottocenteschi, ha affittato Hill House per tre mesi, allo scopo di scoprire cosa succede nella casa vivendoci dentro, e chiamando a condividere l'esperienza un gruppetto di assistenti.
Oltre a Eleonor, a raggiungere il professore in questa sospetta haunted house saranno la bella Theo (Theodora detta Theo, Theo e basta: non se ne saprà mai il cognome), che s'è lasciata dietro un negozietto pieno di belle cose e l'appartamentino in cui vive con un'amica; e il giovane Luke Sanderson, un bugiardo, e anche un ladro, che un giorno erediterà Hill House ed è stato imposto a Montague dalla zia, attuale proprietaria della casa, cogliendo al volo l'occasione di rinchiuderlo per qualche settimana.
La locandina italiana del film di Robert Wise del '63
La casa, oltre alla disarmonia che ne vizia dalla nascita l'assetto, disallineando scale e pareti e alterando la percezione dello spazio (con l'ovvio risultato di confondere e innervosire chi ci abita), nel passato è stata teatro di una listaimpressionante di tragedie, tra cui un suicidio per impiccagione. Empia dalla nascita, quindi, o comunque non idonea a essere abitata da esseri umani da oltre vent'anni, disturbata, corrotta, malata o un altro qualunque degli eufemismi allamoda che alludono alla follia (“Una casa squilibrata non è male come immagine”), nell'introduzione del professor Montague Hill House rientra quindi a pieno titolo tra le case impure o proibite, le case con la lebbra descritte nel Levitico, le case stregate; per quanto, forse, a voler esaminare le cose razionalmente si possa far risalire il tutto alla presenza di acque sotterranee, correnti elettriche, o allucinazioni dovute all'inquinamento dell'aria (il positivismo scientifico, involontariamente comico di fronte al brutale scatenarsi di fenomeni paranormali che di lì a poco si abbatterà sui protagonisti).
Il motivo per cui le due ragazze, Eleonor e Theo, sono finite nella lista di potenziali assistenti compilata da Montague è che Eleonor a dodici anni è stata al centro di un eclatante poltergeist (con la tempesta di pietre scatenatasi sulla casa che la ragazzina divideva con madre e sorella) e Theodora entrando nel laboratorio con una risata, portando con sé una ventata di profumo floreale, ha indovinato, divertita ed eccitata dalla propria abilità, diciotto carte su venti, quindici carte su venti, diciannove carte su venti, che un assistente mostrava via via senza che lei vedesse o sentisse.
Entrambe sono quindi sospettate di non comuni qualità sensitive dal professore, che intende servirsene come di una sorta di ghost detector - o canarini in gabbia - in questa miniera di fantasmi annidata sulla collina e gestita in modo elementare da Mr e Mrs Dudley. Custode torvo e ghignante lui, cuoca e governante monocorde lei (che rivolge agli ospiti sempre la stessa litania di orari da rispettare e incombenze da assolvere, senza scostarsene di un millimetro qualunque domanda loro le pongano), se la battono entrambi al calar della notte e saranno i soli a condividere seppur a latere l'esperimento di Montague. Loro, e Mrs Montague, che raggiungerà il marito e i suoi ospiti intorno a metà libro in compagnia dell'assistente (e forse amante...) Arthur Parker, marziale direttore di collegio appassionato di spiritismo: “È così raro trovare qualcuno nell'ambiente scolastico che sia interessato all'aldilà”, l'esilarante presentazione dell'uomo da parte della signora.
L'arrivo dei due, i loro esperimenti fin de siècle con la planchette, l'insistenza della Montague sulla necessità di arieggiare bene le camere che ospitano presenze ultraterrene (il positivismo ottocentesco applicato al sovrannaturale...), l'assoluta sordità di entrambi alle selvagge manifestazioni che notte dopo notte stanno avviluppando gli altri in un bozzolo di terrore, rappresentano per la Jackson una riuscita incursione nel territorio della commedia o del racconto umoristico, che la scrittrice iniziò a praticare solo nell'ultimo periodo, dopo la lunga inattività cui l'aveva costretta un esaurimento nervoso (venendone però interrotta dalla morte per insufficienza cardiaca, a soli quarantotto anni).
Una scena del film di Robert Wise
Shirley Jackson ebbe un'esistenza complicata (disordinata e incerta persino la sua data di nascita, a volte collocata nel '19 invece che nel '16 per volontà della stessa scrittrice, che era più grande del marito ma non voleva che la cosa si risapesse) e funestata dal pessimo rapporto con la madre Geraldine, che usava chiamar la figlia il mio aborto mancato e la cui ombra peserà sulla scrittrice per tutta la vita. Ricorrente nei racconti e nei romanzi la madre assente o, al contrario, ossessivamente invadente, che per esempio s'intrattiene a leggere il diario della figlia mentre quest'ultima è a scuola, e ne minimizza i successi, insistendo crudelmente sulle presunte infelicità fisiche.
Shirley Jackson
E pure Luke, il futuro e riluttante erede (e quindi, in qualche modo, il figlio) di Hill House, parla di durezza e sgradevolezza descrivendo l'arredamento della casa: della casa che è, anche, sostituto materno, di quel tipo di materno comune all'autrice e ai suoi personaggi, appunto Luke e Eleonor, orfano l'uno, sfruttata e maltrattata l'altra (quanto all'allegra Theo, non avendo un cognome appare anche priva, beata lei, di una struttura parentale di qualche rilevanza). Una tipologia genitoriale che invece di mettere al mondo vuol soltanto deprivare, inglobare e distruggere: “È tutto così materno. Così molle. Così ovattato. Grandi poltrone e divani avvolgenti che quando ti siedi si rivelano duri e sgradevoli, e ti respingono immediatamente...”.
Ed è sempre Luke, erede e figlio ingrato, a lanciare un avvertimento a Hill House, “una casa madre, la madre di tutte le case, una padrona di casa, una casa padrona. Così come il nostro Arthur è un pessimo direttore di scuola, io sono sicuro che sarò un pessimo padrone di casa, quando Hill House sarà mia”. E ancora: “Io non sono tenero con le case, Nell; potrei anche scatenarmi e fracassare l'uovo di Pasqua di zucchero, o fare a pezzi le manine del bambino, o potrei andare su e giù per lo scalone, urlando e menando colpi con un bastone da passeggio alle lampade di vetro incollato e alla matrona pettoruta che regge lo scalone sulla testa...”.
La Jackson scrive il suo romanzo nel '56. Sono, questi, gli anni del boom della psicanalisi, in un tempo ormai consegnato alla consapevolezza dell'importanza dell'inconscio nella vita quotidiana. Spesso sulla scorta proprio di romanzi di maggiore o minor successo, s'infittiscono a Hollywood le pellicole che esplorano il tema del rimosso e del disagio psichico: da Dietro la porta chiusa a Io ti salverò a Marnie, “Hollywood impazzisce letteralmente per la psicanalisi-digest” (G. Turroni).
Tippi Hedren in una scena del film Marnie diretto da Alfred Hitchcock
E di fatto l'intero Incubo appare percorso - fin dal titolo, in effetti - da una ben innestata impalcatura psicanalitica: con quella casa buia piena di porte chiuse, sulla cui pozza d'oscurità a poco o a nulla valgono le fievoli lampadine da notte sospese sulle porte delle camere da letto (la grande casa immersa nelle tenebre come metafora dell'inconscio; le piccole luci per lo più inutili, o comunque insufficienti, a simboleggiare gli esili barlumi di coscienza; le porte chiuse emblema del rimosso; il sonno turbato da fantasmi puntualmente affioranti nel momento di sospensione della coscienza).
Una scena della serie tv Netflix
E per tutto il libro aleggia il sospetto che Luke, Theo, il professore, la coppia di domestici non siano che una proiezione dell'io frammentato e oberato dal senso di colpa di Eleonor: che ha lasciato morire la madre inferma, riaddormentandosisfinita mentre quest'ultima la chiamava dalla sua stanza o addirittura non svegliandosi affatto (lei non ricorda esattamente come siano andate le cose).
Eleonor la repressa, cui la madre non avrebbe mai permesso di lasciar la tavola in disordine e che la prima sera vorrebbe lasciarsi scivolare anche lei sul tappeto, come Theo, ma non ne ha la naturalezza né la disinvoltura e si condanna all'abbraccio della poltrona rigida e scivolosa; Eleonor la non desiderata (“mai da nessuno, in nessun posto”), che dorme su una branda in casa della sorella e a Hill House si dibatte tra le esigenze del professor Montague, sorta di Super Io dottorale e accademico, e quelle della seduttiva, vogliosa, elementare Theo, plausibile incarnazione dell'Es.
Ma nel liquido e a un tempo ostile universo di Hill House i ruoli si mescolano, passando dall'uno all'altro; così il Super Io può trasferirsi, temporaneamente, a Luke, che a un certo punto osserva educatamente: “C'è una lotta fra il bene e il male per l'anima di Nell. Dio lo faccio io, presumo, no?”.
E alla stessa Eleonor - che vorrebbe, anche lei, rinunciare al proprio cognome, e chiamarsi Eleonor e basta - può capitare d'esser definita elementare dall'istintiva, poco educata, cattiva Theo.
Frustrata dall'elusiva ostilità di Hill House e dall'apparente impossibilità di venirne a capo - quelle porte che si chiudono da sole, subito dopo esser state aperte; quelle scale leggermente convesse, che spingono chi si trova a percorrerle ad aggrapparsi al corrimano, come se si stesse per cadere; quel cerchio di stanze chiuse, prive di finestre, nel cuore della casa, seguito da altri anelli di stanze via via più esterne, come un gorgo o vertigo d'hitchcockiana memoria - sarà, d'altronde, la stessa Theo a informar perentoria il professor Montague di voler andare a dormire solo dopo “aver esplorato ogni angolo di questa casa. Non voglio più star lì sdraiata a chiedermi cosa c'è sopra o sotto di me”. Io, Super Io e Es, ancora una volta.
E del resto il numero tre ricorre in tutto il romanzo: tre sono gli assistenti di Montague; tre i familiari di Eleonor (la sorella sposata con il marito e la figlia; prima in casa c'erano Eleonor, la sorella e la madre); il professore ha affittato la casa per tre mesi; lui, la moglie forse infedele e l'improbabile amante formano il classico triangolo; mentre è in viaggio verso Hill House Eleonor si ferma al bar del vicino villaggio, rappresentando per un istante il terzo incomodo nel dialogo tra l'imbronciata ragazza che serve il caffè e l'uomo appoggiato al bancone; quando giunge a Hill House, sempre Eleonor - che è arrivata per prima - viene accolta da Mr Dudley e accompagnata nella sua camera da Mrs Dudley; nell'enorme gruppo marmoreo che si staglia sullo sfondo delle righe color malva del salone ci sono un uomo e due donne; Hugh Crain, il vecchio e malvagio padrone di casa, ha vissuto a Hill House con le due figlie...
Una scena del film di Robert Wise
Ed è significativo che la catastrofe giunga quando Eleonor, nascosta nell'ombra, non sente più gli altri parlare di sé. “Quando cominceranno a parlare di me?”, si chiede Eleonor, ma invano, nessuno parla di lei: Luke e Theo progettano una gita al ruscello, il professore cerca di difendersi dal vaniloquio di Arthur, la Dudley e la Montague spettegolano davanti a una tazza di tè... All'improvviso è come se Eleonor non esistesse: o forse, come se il suo Io, sfuggito all'oscillazione tra i due poli, precipitasse nel vuoto, schiantandosi.
Disorientata da quest'assenza di rifrazione, Eleonor fugge su e giù per Hill House come un pipistrello impazzito, rintanandosi nella cucina con tutte le sue porte che allude forse appunto alla definitiva frammentazione dell'Io, incapace di fronteggiare il trauma (“Qui va bene, pensò, appena li sento arrivare posso fuggire in qualsiasi direzione”); mentre gli altri, allarmati, la cercano, inseguendola per tutta la casa. Continuando a fuggire la ragazza s'infila nella biblioteca da cui si è sempre tenuta lontana, disgustata da un odor di marcio e decomposizione (una colpa?) che gli altri non avvertivano: una biblioteca che adesso invece è luminosa e calda. “Sono a casa, pensò, e a quel pensiero si fermò, sbalordita”.
Hill House, alla fine, ingloba e accoglie Eleonor; una sorta di ritorno al grembo materno, una regressione, frutto della rinuncia al proprio sé cosciente (“Di tutti loro, Luke è l'ultimo da cui vorrei esser trovata, pensò”; ma ancor prima, assediata dall'avido abbraccio di Hill House, Eleonor si era detta “è troppo; rinuncio al possesso di questa me stessa, abdico; qualunque cosa voglia da me, l'avrà”). Una rinuncia che la consegna per sempre alla casa, la cui facciata divertita e sicura sorveglia dall'alto le puerili manovre degli altri (il professore, Luke, Theo, Mrs Montague...) per cercar di salvarla, mandandola via.
“Ma io non me ne vado affatto, pensò, e rise forte; la fanno facile, loro, ma Hill House non la pensa così”.
L’incubo di Hill House
di Shirley Jackson
Adelphi - 2016
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