La riconosci dalla faccia colorata delle case, che messe insieme regalano un arcobaleno vivacissimo, e per via del caratteristico mandracchio, l’anima più intima del porticciolo, una volta collegato al castello dalle sue antiche mura. Muggia, a due passi da Trieste, è un’autentica perla dell’Adriatico. Ed è pure l’ultimo lembo d’Italia prima del confine sloveno. Non si contano i popoli e le genti che hanno lasciato la loro impronta tangibile su questo luogo variopinto, che con l’acqua sembra quasi danzare. Ovviamente non potevano mancare i Romani e i Veneziani (l’annessione alla Serenissima risale al 1420).
La collocazione di Muggia è un mosaico di situazioni diverse: fino alla conquista romana (117 a.C.) facevano la voce grossa i castellieri, villaggi collinari cinti da mura a secco e abitati prevalentemente da agricoltori. Uno di questi primitivi agglomerati fu poi modificato dai conquistatori e trasformato in una fortezza. Castrum Muglae era l’insediamento più antico di Muggia e si trovava su un colle; venne poi abbandonato in favore del nuovo, Borgo Lauro, disteso sul mare e corrispondente più o meno alla Muggia attuale. Che è anche il comune più a sud del Friuli-Venezia Giulia e più a nord dell’Istria.
Il centro storico cattura l’occhio soprattutto per via delle sue tipiche case a gheffo (con il piano superiore sporgente rispetto al resto dell’edificio) e porta nel suo ventre i segni del commercio del pesce e del sale, motore dell’economia locale e fonte di non poche scaramucce con Trieste sin dal Cinquecento. Muggia è tra l’altro famosa per il suo Carnevale, probabilmente riconducibile alle feste romane dei Baccanali, dei Lupercali e dei Saturnali e che, soprattutto nel Medioevo, era legato a quello di Venezia (per gli appassionati: Loriana Crevatin, Il Carnevale a Muggia, Edizioni Parnaso, Trieste, 2001).
Giuliana Malfatti e Sergio Carrino
Ma nelle stanze più segrete della cittadina del Triestino si nasconde anche un altro luogo simbolo: la Casa Museo-Biblioteca Beethoveniana, costruita con passione da Sergio Carrino e Giuliana Malfatti e poi anche dal figlio Ludovico. Una graziosa villetta come tante immersa nel verde, se non fosse per la piccola targa di Ludwig van Beethoven che campeggia con discrezione all’ingresso. Un effetto voluto: «Riceviamo solo su appuntamento», spiega Sergio Carrino mentre apre la porta di questo piccolo mondo antico. «Basta scriverci via mail o chiamarci al telefono, siamo anche su internet». Il culto di Beethoven è una fiamma che arde nel cuore dei Carrino da oltre mezzo secolo e che la famiglia alimenta quotidianamente con la sua passione; ma non al prezzo di pellegrinaggi di massa. Anche perché il museo beethoveniano è un’abitazione privata. Le uniche stanze non dedicate a Beethoven sono la camera da letto e la cucina. Per il resto è un’alluvione di oggetti dedicati al grande compositore tedesco.
«Sa che Beethoven amava il caffè?». Giuliana Malfatti mi accoglie nel soggiorno illuminato da un sole estivo che si sforza di rivaleggiare con lo spirito di Beethoven. «Sessanta chicchi, non uno di più», aggiunge per delimitare con precisione uno dei tanti aspetti curiosi legati al grande compositore. «E li contava a uno a uno». Più difficile è contare le opere che raccontano Beethoven. I Carrino però lo hanno fatto con cura: oltre 11.500 pezzi per un totale di 12 collezioni diverse. C’è di tutto: sculture, dipinti, riviste, monete, medaglie, francobolli, ex libris, cartoline, figurine, manifesti pubblicitari, spille, placchette, lampadari, documenti, non pochi oggetti che sconfinano nel kitsch; perfino una cantina di vini dedicati a Beethoven. Per non parlare della biblioteca, che contiene oltre 4.500 scritti e partiture e raccoglie tutte le prime edizioni, in diverse lingue, delle biografie e degli studi su Beethoven.
La prima biografia dedicata a Beethoven
Ma come tutto ebbe inizio lo spiega un libro in particolare. È proprio Sergio a ricordarlo mentre afferra da uno scaffale la prima biografia in assoluto di Beethoven, redatta da Johann Aloys Schlösser e pubblicata nell’estate del 1828 a Praga e in una seconda edizione nel 1844 (ma è meritevole di menzione anche quella, controversa, dell’amico-nemico del compositore Anton Felix Shindler, che risale al 1840). «Fino agli anni Ottanta vivevamo a Trieste e nella stessa via dove, negli anni Sessanta dell’Ottocento, aveva vissuto Alexander Wheelock Thayer (1817-1897), il più grande biografo di Beethoven, che a quei tempi era anche console americano in città. Negli anni Sessanta io e mia moglie andavamo spesso al ristorante ‘Da Ruggero’: lì c’era un pianista che suonava alcune opere di Beethoven. Quando ascoltai quelle melodie, ne rimasi folgorato: fu amore a prima vista. Così decisi di saperne di più. Nel 1971 acquistai una biografia di Beethoven scritta da Giovanni Carli Ballola. Cominciò tutto da lì». Per la cronaca, il libro si intitola Beethoven e fu pubblicato per i tipi di Sansoni Accademia nel 1967. Del volume esistono anche alcune edizioni successive: una curata da Rusconi (1985) e una, dal titolo Beethoven. La vita e l’analisi strutturale delle opere, pubblicata da Manzoni Editore (2021).
Sergio Carrino con la ciocca di capelli di Beethoven vivente
Un libro tira l’altro. La passione dei Carrino, soprattutto dopo il trasferimento a Muggia, negli anni Ottanta, comincia a sconfinare nel collezionismo vero e proprio. Eppure, basta esplorare ogni stanza in cui alloggia (e aleggia) il mito di Beethoven per accorgersi che la loro è molto più di una mania. «Di Beethoven abbiamo amato soprattutto la vita», sottolinea Giuliana, «ma anche una serie di legami che non immaginavamo, soprattutto con altri artisti a lui legati di cui abbiamo rivalutato l’importanza». Sergio ascolta, poi dice la sua: «Mi creda, è meraviglioso vivere nella bellezza. Avere a che fare ogni giorno con Beethoven è una gioia anzitutto per lo spirito. Ogni pezzo è un figlio al quale voler bene, perché ci parla di un uomo che ha cambiato la storia della musica e la sua epoca». E in effetti la casa-museo dei Carrino sembra una piccola Vienna di fine Settecento, dove, secondo Madame de Staël, «si trattavano i piaceri come i doveri» (così in Jan Caeyers, Beethoven. Ritratto di un genio, Mondadori). Collezionare sì, ma senza eccessivi affanni. E senza perdere di vista il vero obiettivo: mantenere viva la storia della famiglia grazie a Beethoven.
Sergio Carrino con la foto del cranio di Beethoven
Del resto, molto ha fatto anche il ‘gemellaggio con il Beethoven Haus Museum di Bonn, dove i Carrino sono soliti organizzare diverse mostre portando in Germania i loro pezzi pregiati. E ve ne sono alcuni a dir poco incredibili. Per esempio, una ciocca di capelli di Beethoven vivente. O il mattone, con tanto di sigillo del musicista stesso, della sua casa natale. Oppure la fotografia originale del teschio di Beethoven, il cui cadavere fu riesumato nel 1863. «Molti di questi oggetti li abbiamo acquistati da antiquari che non erano coscienti di ritrovarsi tra le mani un autentico tesoro». Sergio lo dice quasi con sollievo mentre tira fuori da un cassetto una maschera di bronzo di Beethoven, ricavata da uno dei primi calchi in gesso del suo volto. «Ne abbiamo tante altre, ma questa è quella più definita nei dettagli e noi siamo gli unici a possederla».
Giuliana Malfatti con il mattone originale della casa natale di Beethoven
Ma il mito di Beethoven è legato anche ad altri oggetti solo apparentemente minori: le medaglie, gli ex libris, le cartoline, le figurine, i francobolli, i manifesti pubblicitari. I quali dicono molto anche della società che li ha prodotti e della passione dei Carrino. Che da questo punto di vista hanno fatto le cose per bene: ogni stanza è infatti un museo nel museo, con quel tocco di multimedialità che rende il racconto molto più vivo e interattivo.
La sala delle grafiche pubblicitarie
Tra un cimelio e l’altro, rigorosamente catalogato e di cui viene mostrato ogni elemento utile sullo schermo, s’intravede il vissuto personale di chi lo ha prodotto e di chi lo ha scelto come inquilino. «Parlavo di figli non a caso», sottolinea Giuliana. «In fondo, tutto ciò che abbiamo collezionato ci ricorda la nostra ricerca, lunga mezzo secolo, ma ci ha permesso anche di capire quanto Beethoven abbia influenzato la nostra vita, oltre che la società e i secoli successivi alla sua morte». Incluso il mondo pittoresco della pubblicità, che il mito di Beethoven lo ha commercializzato in tutti i modi, talvolta fino a banalizzarlo: si va dai pianoforti alla biancheria intima, dalla radio ai dischi, dal whisky al gas, dai servizi bancari all’alta fedeltà.
La stanza delle medaglie
«Forse il segreto del mito di Beethoven sta nella sua determinazione». È Sergio a rompere di nuovo il ghiaccio, dopo qualche minuto di silenzio, mentre entra nella cantina dei vini. Colpa delle cartoline con la faccia di Beethoven, alcune delle quali raccontano in diverse lingue e lungo due secoli amori, speranze e illusioni spesso trascritte su carta con un omaggio tenerissimo allo spirito ‘musicale’ di quei sentimenti. «A un certo punto Beethoven divenne sordo, ma non si diede mai per vinto. La musica era in lui». La sua vera amata immortale? Perché no?
La cantina dei vini dedicati a Beethoven
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