Peter Pan

Referenze

Peter Pan

| Paola Rocco

Archetipi

Peter Pan non è, esattamente, un orfano: se n’è andato di casa per non dover crescere, e quando ha deciso di tornare ha trovato la finestra sbarrata e la madre a letto con un altro bimbo. Se n’è andato a sette giorni, volando via perché “tutti i bambini, all’inizio, cercano di volar via”. Diverso il destino dei Ragazzi Perduti: “Sono i bambini che cadono dalla carrozzina mentre la governante sta guardando da un’altra parte. Se nessuno viene a reclamarli entro sette giorni, vengono mandati lontano, nel Paese Che Non C’è”. 
In tema d’abbandono, “Peter Pan ha molti punti in comune con il dio Pan, figlio di Ermes e di una ninfa che lo abbandona appena nato. Legato strettamente al feroce Dioniso, Pan è divinità pastorale per eccellenza, dalla duplice natura di animale e uomo: umano di sopra, simile a una capra di sotto... Inventore della siringa melodiosa, il flauto, e artefice della diffusione del panico, è compagno e amante delle terribili ninfe che rapiscono giovani e bambini” (dall’introduzione di Francesco Maria Cataluccio a Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere, Feltrinelli, 1992). Anche il suo trionfante chicchirichì, il grido che ama lanciare per cantare la propria gloria, può essere inteso come “un omaggio alla seconda parte del nome, che chiama in campo il dio Pan, manifestazione del potere incontrollato della natura, gettonatissimo tra Otto e Novecento come emblema d’una diversa percezione di sé stessi come creature non culturali, ma decisamente istintive” (dall’introduzione di Luca Scarlini a Peter Pan, Einaudi Editore, 2015; si veda, per fare solo un esempio, il racconto Storia di un panico di E. M. Forster, ne L’omnibus celeste, 1914).
Alla fine dell’Ottocento, Pan era diventato, soprattutto in Gran Bretagna, la figura preferita tra quelle offerte dalla mitologia greca; e Barrie, descrivendo Peter, racconta che agli inizi se ne andava in giro “a cavallo di una capra”. All’Università di Edimburgo, il giovane studente scozzese aveva adorato il greco antico e il professor Blackie, che, oltre a tramettergli l’amore per la classicità, aveva incoraggiato i suoi primi passi nel mondo del teatro: “Si può quindi sostenere che Peter Pan è allo stesso tempo un bambino e... l’eroe archetipico sia dei racconti di fate che dei racconti d’avventura. In realtà, è così archetipico che si comincia quasi a credere all’affermazione di Barrie sulla sua commedia: Non mi ricordo di averla scritta”.

Bricchi

La fata iraconda che accompagna Peter nelle sue avventure si chiama Campanellino (Tink nell’originale inglese) perché accomoda le pentole e i bricchi di metallo. Competenze piuttosto umili che a detta di Peter (“Devi scusarla”, dice a Wendy, “è una fata piuttosto volgare, sai”) sarebbero alla base del suo scarso autocontrollo e delle cattive maniere di cui dà prova quand’è arrabbiata o gelosa (stupido asino l’appellativo rivoltogli più di frequente). Nella versione cartoon del ‘53 è una specie di pin up - i fianchi generosi le impediscono di uscire dal cassetto dov’è stata rinchiusa per sbaglio dal ragazzo - ma sebbene ricordi vagamente Marilyn Monroe non ci sono prove che i disegnatori Disney si siano ispirati a lei. 

Conflitti

“C’è in Peter un conflitto sul ruolo sessuale: lui vuole che le ragazze gli facciano da mamma. Oscilla fra tre personaggi femminili (la madre è sparita perché s’è dimenticata di lui e gli ha sbattuto la porta in faccia): Wendy Darling, l’amore romantico, la perfetta fidanzatina; Campanellino, fatina gelosa, rappresentante di quel mondo magico e sovrannaturale che lo ha attratto nei Giardini di Kensington; Giglio Tigrato, il sesso, l’esotismo, l’avventura. E, di fronte all’isola, nuotano minacciose e suadenti le sirene” (F. M. Cataluccio). Conteso tra le diverse accezioni del femminino, “si ritrae però a qualsiasi profferta sentimental-sessuale”, ha il terrore d’esser toccato e fugge verso nuove avventure. La morte lo seduce più della vita (“Morire sarà un’avventura bellissima”) e molto più di un’eventuale riproduzione “di cui si sente vittima, dopo che la madre ha lasciato chiusa la finestra di casa facendosi trovare con accanto un altro bambino” (L. Scarlini). 
Il ribrezzo di crescere si riverbera nella disinvoltura con cui, non appena sembrano diventare adulti, Peter “sfoltisce” la sua ciurma di ragazzi perduti: “Proprio così, li sfoltisce (thins them out), cioè li fa fuori o li fa uccidere dai pirati” (F. M. Cataluccio). Per lui (favorito in questo dalla sua prodigiosa mancanza di memoria), il tempo non scorre ed è con autentico orrore che, tornato a far visita a Wendy per portarla di nuovo via con sé, la scorge ormai cresciuta e sposata nel bagliore incerto della fiamma del focolare: “Si era alzata; ed ecco finalmente egli fu colto dalla paura. ‘Che vuol dir questo?’ gridò, indietreggiando”. Ma Wendy trova una soluzione che chiude circolarmente la storia: sarà, stavolta, la sua bambina, la piccola Jane, a seguir Peter al Paese Che Non C’è per le pulizie di primavera; e a sua volta Jane gli presterà la figlia Margaret, in un movimento, appunto, circolare, “garantito dal fatto che il perno su cui ruota il tutto, Peter Pan, rimane immutato”.

Dediche

Pur avendo esordito in teatro nel 1904, la commedia Peter Pan or The Boy who Would Not Grow Up fu pubblicata solo nel ’28 da Hodder and Stoughton, con una lunga introduzione firmata dall’autore e preceduta dalla frase “Ai cinque, una dedica”. I cinque sono i piccoli Davies (George, Jack, Peter, Michael e Nico), figli di Sylvia du Murier e del giovane avvocato Arthur Davies (l’inetto signor Darling della commedia). Barrie aveva incontrato Sylvia a un party, nel 1897, innamorandosene perdutamente (“È la più bella creatura che abbia mai visto”) e coltivando in seguito l’amicizia con la coppia, favorita dalla vicinanza tra le rispettive case. 
Nel 1895, deciso a tagliare i ponti con la provincia e a inserirsi stabilmente nella sfera dell’alta borghesia cittadina, l’ormai celebre drammaturgo s’era infatti trasferito in un nuovo appartamento, al 133 di Gloucester Road, in uno dei quartieri più raffinati di Londra e a un passo dai Kensington Gardens dove lui e la moglie Mary (“che lo abbandonerà qualche anno dopo, denunciandone la freddezza, i grovigli psicologici e l’eccentricità”) portavano a passeggio il sanbernardo Porthos (che sarà poi Nana, l’irreprensibile tata a quattro zampe dei Darling). 
“Intimamente animato da questo segreto amore per la madre, fu con i bambini che Barrie legò meravigliosamente” (R. Gorgoni), conducendoli a passeggio, giocando con loro e cominciando a nutrire un affetto profondo specie per il maggiore, George, “il ragazzino che mi chiama padre”: è lui il bambino che in Peter Pan nei Giardini di Kensington mimetizza col nome di David e sono i cinque piccoli Davies a dargli l’idea di Peter Pan: “Ho creato Peter Pan strofinandovi violentemente insieme, come fanno i selvaggi che producono una fiamma da due stecchi. Questo è Peter Pan, la scintilla venutami da voi”. 
Sarà Barrie a dar conforto e sostegno a Sylvia durante la terribile malattia del marito, che morirà di sarcoma nel 1907; e, quando la Llewlyn lo seguirà nella tomba, lo scrittore ne adotterà i figli, “assecondando così il suo profondo desiderio di paternità” (dall’introduzione di Renato Gorgoni a Peter Pan nei Giardini di Kensington, Rizzoli, 1990). Alla storia d’amore tra Barrie e la famiglia Davies è dedicato il film biografico del 2004 Neverland. Un sogno per la vita di Marc Forster, con Johnny Depp e Kate Winslet.

Epiloghi

Nell’Epilogo - che fu recitato in teatro una sola volta, il 22 febbraio 1908 - Wendy, ormai sposata e madre d’una bambina, Jane, presterà quest’ultima a Peter perché prenda il suo posto e vada con lui all’Isola Che Non C’è per le pulizie di primavera.

Film

La storia di Peter Pan, “uno dei più grandi e duraturi successi del Novecento” (L. Scarlini) inizia appunto nel 1904 in forma di pièce, andando in scena il 27 dicembre al Duke of York’s Theatre di Londra tra non poche difficoltà: Barrie aveva passato tutto il Natale a scrivere e riscrivere il finale, arrivando a cinque stesure, e la messa a punto dello spettacolo, tra ripensamenti e correzioni, era stata accidentata, causando non poche ansie al manager Dion Boucicault. Nei panni del “ragazzo che non volle crescere” c’era appunto Nina Boucicault, sorella di Dion; Hilda Trevelyan era Wendy, Gerald du Maurier (fratello di Sylvia Llewlyn Davies) Uncino e Arthur Lupino il cane Nana. 
A dispetto delle difficoltà iniziali il successo fu clamoroso, bissato il 6 novembre 1905 a New York e, un paio di decenni dopo, consacrato dall’approdo sul grande schermo. Nel ’24 il debutto in un film muto (con Betty Bronson nei panni di Peter: il fascino androgino del personaggio si rifletteva nelle scelte di casting, spesso orientate sulle attrici piuttosto che sugli attori) e, nel ’53, Claude Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske diressero per la Disney il celebre cartoon, rimodulato in chiave bambinesca e rasserenante. 
“Sospeso tra un passato che non riesce a ricordare e un presente che non vuole vivere” (L. Scarlini), quarant’anni dopo Robin Williams sarà invece un maturo Peter Pan nel malinconico Hook diretto da Spielberg (mentre Paul J. Hogan nel 2003 firmerà il primo live action della fiaba di Barrie con due adolescenti nei panni dei protagonisti). Lo scorso aprile la Walt Disney Pictures ha infine distribuito Peter e Wendy, nuovo live action diretto da David Lowery, basato sulla pièce del 1904 - come lo stesso cartoon degli anni Cinquanta - e interpretato da Alexander Molony (Peter), Ever Anderson (Wendy), Yara Shahidi (Campanellino) e Jude Law (Uncino).

Giardini

I Kensington Gardens, “lo spazio magico in cui lo scrittore ambienta le sue trame” (L. Scarlini), dimora di fate e folletti  maliziosi e inclini a castigare, anche piuttosto crudelmente, i bimbi disubbidienti, sfuggiti al controllo delle bambinaie e rimasti a curiosare in giro dopo l’ora di chiusura (nel momento cioè in cui le fate, dopo essersi celate alla vista per tutto il giorno, si danno a danze e divertimenti sfrenati sulle note improvvisate da Peter col suo zufolo). 
Spazio appunto magico, separato, altro, luogo di purezza e rifugio intangibile protetto da pesanti cancelli, mettono in scena il mito del giardino come salvezza e compensazione da una quotidianità cittadina, e ormai pienamente industriale, percepita - non solo a Londra - come sempre più disumanizzante e frenetica. 
“Il giardino... conservato a ogni costo e sia pure in pillole, secondo il classico modello inglese delle casette a schiera di mattoni e ardesia, ciascuna col suo rettangolo di verde sul retro” (L. Scarlini), ispira le fughe in campagna degli uomini d’affari tra Otto e Novecento: in Camera con vista di E. M. Forster il padre di George, ormai in pensione, si trasferisce appunto nel Surrey, prendendo in affitto il villino di pessimo gusto esecrato dall’high society locale e accogliendo il figlio, impiegato a Londra, solo nei fine settimana. E oggi la meta delle romantiche minifughe (uguale: amore vero) sperimentate dall’ingenua Bridget Jones con l’inaffidabile fidanzato sono, ancora, nostalgiche magioni immerse nel verde. 
Ma, in chiave opposta, nei primi anni Settanta il film Pomi d’ottone e manici di scopa celebra l’irrompere del magico nell’affollatissimo mercato stracittadino di Portobello Road: mettendo in scena le mirabolanti epifanie cui vanno incontro i protagonisti tra le bancarelle gremite di cianfrusaglie e le pirotecniche coreografie del balletto finale (prima che la voce chioccia del guardiano, urlando appunto “Ora di chiusura!”,  non segni, stavolta, lo spegnersi del divertimento, consegnando il mercato a una notturna immobilità). 
E ancora in Mary Poppins (1934; il film con Julie Andrews è di trent’anni dopo) le quotidiane passeggiate in città dei bimbi affidati alla tata scesa dal cielo possono rivelarsi a ogni istante fonte di stupefacenti avventure (come, del resto, le stesse quattro pareti domestiche, i tetti fuligginosi o il salotto di un vecchio signore), sebbene la Travers abbia a sua volta cura di sottolineare il carattere magico dell’universo extracittadino e, anzi, ne accentui la valenza esoterica: col salto dimensionale di bambini e tata nel paesaggio agreste tracciato coi gessetti da Bert, lo spazzacamino, sul selciato, e tutte le straordinarie avventure che ne seguono. 

Immagini

Nella versione della Ruffinelli (1922-1998) sembra un fauno alle soglie dell'adolescenza (orecchie a punta e ginocchia nocchiute), è vestito di verde, ha una piuma rosso sangue appuntata sui riccioli e si fa ricucire l'ombra ribelle da una Wendy saviamente armata di ago e filo, pure lei all'apparenza sui tredici anni (in Peter e Wendy; nelle illustrazioni all’edizione italiana di Peter Pan nei giardini di Kensington è invece un bimbetto biondo, avvolto in una camiciola e intento a conversare pensosamente con un uccellino occhialuto). 
Nei cinquanta disegni di Rackham (che il 1906, lo stesso anno della pubblicazione di Peter Pan nei Giardini di Kensington, vinse la medaglia d'oro all'Esposizione Internazionale di Milano) dimostra all’incirca due anni, è completamente nudo - fatta eccezione per l'intermittente presenza di una vecchia camicia da notte - e, orchestra delle fate, appare in scena intento a suonare il flauto appollaiato su un fungo. Anche per Gustavino (1881-1950), che illustrò per la Utet La Scala d'oro, celebre collana di classici per l'infanzia, Peter è un bimbo piccolissimo e ignudo, disperatamente aggrappato alle imposte chiuse della sua vecchia stanza o intento a veleggiare in camicia da notte sui tetti di Londra; come, ancora, nelle illustrazioni accentuatamente déco di Ezio Anichini. 
Il dettaglio della camicia da notte - che, in linea col testo di Barrie, a volte diventa una tunichetta di foglie - finirà col diventare una costante, progressivamente trasformandosi nel costume boschereccio poi adottato dalla Disney, che accoglie la declinazione adolescenziale del personaggio, trasformandolo nel monello in giustacuore e calzamaglia del cartoon del '53. 
In linea con le diverse edizioni della storia del fanciullo che non volle crescere, le immagini di Peter si modellano di volta in volta in base alle trasformazioni imposte dal ruolo: se, in Peter Pan nei Giardini di Kensington, un bimbo abbandonato, o meglio, chiuso fuori dalla mamma, dapprima inconsolabile e in seguito pacificata dall’arrivo d’un altro figlio, può plausibilmente aver più o meno due anni e volarsene attorno in sottanina, nell’irrompere con disinvolta sicumera nella ben ordinata e quieta esistenza dei fratelli Darling (buttandola letteralmente all’aria) lo stesso avrà invece l’aria di un adolescente malizioso e irresistibilmente convincente.

Lady Nicotine

Tormentato da continue emicranie, Barrie cercava d’attutirle con moltissime sigarette: uno dei suoi primi lavori s’intitola appunto Lady Nicotine. 

Madri

Sebbene Peter non annetta grande importanza alle madri (“Le riteneva persone sopravvalutate”) e proibisca ai bimbi sperduti di nominarle (“Era solo in assenza di Peter che potevano parlare delle madri, perché lui aveva vietato quell’argomento dicendo che era stupido”), sarà lui a persuadere Wendy a volar via con Gianni e Michele verso l’Isola Che Non C’è prospettandole un futuro in cui potrà far da mamma alla sua piccola ciurma, raccontando fiabe, cucendo tasche, rimboccando coperte e così via. Quando la ragazzina approda sull’isola, sia i ragazzi che lo stesso Peter le chiedono in ginocchio di far loro da mamma: “Wendy diventa così una specie di Biancaneve con i sette nani. Un totem della maternità e dell’affetto, che i pirati (anche loro bisognosi di una madre) vorrebbero rapire e usare per sé” (F. M. Cataluccio).
La madre è una figura centrale nella storia di Peter Pan - come in quella del suo creatore, del resto - a partire dalla sua prima apparizione, la signora Darling. “Una donna tutta dedita ai propri figli, sui quali riversa l’affetto che un marito infantile e conformista non riesce a ottenere” (F. M. Cataluccio): il famoso bacio annidato all’angolo della bocca che il signor Darling non ha mai conquistato e che Peter, invece, si porterà via senza neanche impegnarsi (“Naturalmente Peter promise; e poi volò via. Portò con sé il bacio della signora Darling. Quel bacio che non doveva essere di nessun altro, Peter se lo prese con estrema facilità”). 
A differenza di quella di Peter, che pur avendolo pianto s’è poi consolata con un altro figlio, e della madre di Barrie, che non gli ha mai realmente concesso di consolarla per la perdita del secondogenito, la mamma di Wendy, Gianni e Michele - che dal giorno della scomparsa dei figli vive una vita sospesa, nell’attesa del loro ritorno (“I letti sono stati rifatti, lei non esce mai di casa e, notate, la finestra è aperta”) - sarà infine premiata per la sua fede incrollabile dall’impensabile rientro a casa dei bambini. Un quadro di domestica estasi che, ancora una volta, l’autore/spettatore non può far altro che osservare metaforicamente fuori dalla finestra: “Giacché ci siamo, resteremo qui a guardare. Ecco che cosa siamo: spettatori. In realtà nessuno ha bisogno di noi. E così guardiamo, e diciamo pure cose pungenti, sperando che qualcuna tocchi sul vivo”.

“Non è lui, sono io”

J. M. Barrie era nato il 9 maggio 1860 a Kirriemuir, paesino scozzese a nord di Dundee che aveva un’antica tradizione di tessitori di lana. Il padre era appunto un artigiano tessitore; la madre, Margaret Ogilvy, era invece figlia di uno scalpellino, e “apparteneva a uno dei gruppi più fanatici di quel ramo rigorosamente puritano del Protestantesimo noto sotto il nome di Auld Lichts, in scozzese Antiche luci” (R. Gorgoni). Donna dalla forte personalità, profondamente radicata nelle tradizioni popolari del villaggio, la Ogilvy aveva dato la sua impronta a tutta la famiglia, non cessando di imporre, “con testardo vigore, ai dieci figli... le pesanti regole dell’osservanza religiosa” e creando un clima repressivo che deve aver contribuito non poco a far di Barrie “un ragazzino frustrato, che ricercava nell’inventiva fantastica una fuga di liberazione” (R. Gorgoni). Uniche gioie, i libri di avventure, “soprattutto quelli di Robert Louis Stevenson, e la compagnia dei bambini piccoli, come i figlioletti del fratello maggiore Alexander” (F. M. Cataluccio).
Inoltre la Ogilvy stravedeva per il secondogenito David e non riuscì mai a superare il trauma per la sua morte, a soli tredici anni, per  una caduta sul ghiaccio (“Una pesante presenza fantasmatica: per indicazione esplicita egli è l’autentico prototipo di Peter Pan”, L. Scarlini). 
È lo stesso Barrie, nella biografia dedicata alla madre, a ripercorrere un episodio significativo: “Mia sorella mi disse di andare nella stanza di mia madre e di dirle che aveva anche un altro bambino. Entrai eccitato, ma la stanza era buia, e quando udii la porta chiudersi... ebbi paura e rimasi immobile. Suppongo che stessi respirando affannosamente o forse piangevo, perché dopo un po’ di tempo udii una voce sconsolata, mai prima d’allora così sconsolata, che mi disse: ‘Sei tu?’. Credo che il tono mi ferì perché non risposi. Poi la voce, ancora più ansiosamente, ripeté: ‘Sei tu?’. Pensai che stesse rivolgendosi al ragazzo morto e dissi con una vocina derelitta, ‘No, non è lui, sono solo io’. Allora udii uno scoppio di lacrime e mia madre che si voltava nel letto, e pur essendo buio avvertii che tendeva le braccia nel vuoto”.

Origini

Ripercorrendo nel tempo la genealogia di Peter Pan, nell’introduzione alla pièce Barrie ricorda come all’inizio non fosse altro che una storia di pirati (The Boy Castaways of Black Lake Island), scritta - in due sole copie e con un corredo di 36 foto - assieme al piccolo Peter Llewlyn Davies (che, una volta adulto, farà l’editore e pubblicherà Mary Poppins) nell’estate del 1901, durante una memorabile vacanza trascorsa con i bambini a leggere L’isola del tesoro al Black Lake Cottage, nel Surrey. Il fanciullo naufrago anticipa Peter Pan.

Padri

The Great White Father, Il grande padre bianco, il titolo scelto all’inizio da Barrie per la pièce poi sottoposta al produttore americano Charles Frohman, di passaggio a Londra nell’aprile 1904 (sarà lui a consigliargli d’intitolarla semplicemente Peter Pan). La figura paterna (nella sua doppia declinazione d’inettitudine e autoritarismo) è un’altra figura centrale della pièce: come osserva F. M. Cataluccio, “sullo sfondo brilla sempre l’uncino lucidissimo del capitano, che fin dall’inizio della scrittura per Barrie è stato un doppio dell’affettuoso quanto scriteriato Mr Darling, genitore improbabile dal principio alla fine della vicenda. In conclusione della storia quelli da regolare sono appunto i conti col padre, spettro ingombrante che non vuole tramontare”. Tradizionalmente, a teatro i due ruoli erano interpretati dallo stesso attore, e tracce di questa sovrapposizione si riflettono nel cartoon della Disney, dove Agenore Darling e Capitan Uncino hanno lo stesso doppiatore e si somigliano anche fisicamente (sebbene papà Darling rappresenti una versione imborghesita e imbolsita del mefistofelico capitano dei pirati). 

Quality Street

Si deve a una delle pièce meno note di Barrie, Quality Street (1901), il nome della famosa linea di cioccolatini d’oltre Manica: sulla scatola rotonda bordata di violetto compaiono infatti i due protagonisti, Miss Phoebe e il capitano Brown.

Ritratti

Il personaggio di Peter Pan appare per la prima volta in The Little White Bird (L’uccellino bianco), pubblicato nel 1903 e poi estratto, nei sei capitoli che lo compongono, e ripubblicato dall’editore di Barrie (Hodder and Stoughton) nel 1906, col titolo Peter Pan nei Giardini di Kensington e i disegni di Arthur Rackham (1867-1939), illustratore neogotico che raffigura il protagonista mentre chiacchiera col corvo Salomone o naviga sul Tamigi in un nido di cigni (nel 1911 vedrà invece la luce Peter e Wendy, trasposizione in prosa del testo teatrale, con alcune modifiche). Una curiosità: nella tavola numero due, il signore in marsina e cilindro che saluta regalmente sullo sfondo - mentre, in primo piano, le radici di un albero cavo dissimulano un pullulare di fate - è appunto il re Edoardo VII, mentre l’elfo sospettoso e occhialuto nascosto tra i tulipani in un altro celebre disegno rappresenterebbe un autoritratto dello stesso Rackham. 

Sindromi

La sindrome di Peter Pan, pulsione legata a una volontà di non maturare individuata all’inizio degli Ottanta dallo psicoanalista americano Dan Kiley, che illustrò questa teoria nel fortunato testo divulgativo Uomini che hanno paura di crescere, mettendo in luce “il doloroso scontro con il principio di realtà che affligge... gli adolescenti moderni, portandoli a opporre una resistenza infaticabile e totale al fatto di diventare adulti” (F. M. Cataluccio). Kiley individua la causa della SPP nella famiglia (“I genitori permissivi hanno fatto sì che i bambini si convincessero che le regole, nel loro caso, non si applicassero mai”), asserendo in conclusione che “se seguono le orme di Peter Pan, i ragazzi sono condannati ad accumulare sensazioni di isolamento dagli altri e di fallimento, via via che si compie l’ingresso definitivo in una società dotata di assai poca pazienza con gli adulti che si comportano da bambini” (D. Kiley). 

Traduzioni

È Milli Dandolo - ricordata anche per le sue edizioni di Samuel Pepys e Katherine Mansfield - a firmare, nel ’39, la prima traduzione italiana della fiaba di Barrie (ancora oggi adottata, ad esempio dall’Einaudi, seppur con lievi modifiche). La Dandolo aveva esordito come poetessa diventando, tra le due guerre, autrice di romanzi di larga fama oggi quasi del tutto dimenticati: diversi i titoli trasposti sullo schermo, come La fuggitiva con Anna Magnani e È caduta una donna con Isa Miranda, entrambi del ’41.

Uccisioni

Ben prima che Arthur Conan Doyle facesse morire Sherlock Holmes (ne L’ultima avventura, 1893), era stato Barrie a dare alle stampe un racconto umoristico in cui il celebre investigatore incontrava la morte. Il primo a uccidere Holmes è stato quindi l’autore di Peter Pan. 

Virilità

Nella sua descrizione del terribile Capitan Uncino, Barrie afferma che “nonostante la sua tremenda personalità” c’è in lui “qualche cosa di femmineo”, ma che questa sua caratteristica contribuisce a renderlo ancor più temibile, dotandolo d’una maggiore sensibilità e d’improvvise intuizioni precluse a uomini dalla psicologia più elementare (“È davvero indizio di scarsa virilità fraintendere le donne”, dirà più o meno negli stessi anni anche E. M. Forster). 

Zavorre

Sebbene nella fiaba disneyana Peter esorti i Darling a “cose belle pensar” per poter prendere il volo con lui fuori dalla finestra, sarà poi lui stesso ad assicurarsi dell'incolumità dei tre bambini gettandogli addosso un pizzico di polvere di fata, indispensabile per riuscire davvero a volare: un'aggiunta che sembra sia stata dovuta a motivi di sicurezza, per dissuadere i piccoli lettori e/o spettatori dal tentare sul serio di lanciarsi in volo sotto l'egida dei puri pensieri felici. Nel cartoon Disney questo messaggio è reso evidente dal cane Nana, coinvolto suo malgrado nella distribuzione di polvere magica e perciò anch'esso in grado di alzarsi in volo ma tutt'altro che felice e anzi, in preda a una furiosa disperazione (soprattutto perché il guinzaglio a cui è legato gli impedisce di seguire i piccoli Darling, condannandolo ad annaspare vanamente a mezz'aria). Ma si può pensare che la leggerezza che consente a Peter di volare sia un risultato diretto della mancanza di zavorre psicologiche ed emotive dovute alla sua straordinaria capacità di dimenticare: talmente accentuata da fargli scordare persino le sue stesse avventure.

 

 

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Paola Rocco

Paola Rocco

Autrice del romanzo giallo 'La carezza del ragno' e appassionata lettrice, scrive di mistery e venera Agatha Christie. Vive a Roma con il marito, la figlia e una gatta freddolosa detta Miss Poirot.

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