«Il calcio è popolare perché la stupidità è popolare», diceva Jorge Luis Borges. Si sbagliava, e sostenerlo non è un reato di lesa maestà. Il pallone, infatti, contrariamente a quello che pensava il grande scrittore argentino è un fenomeno culturale e di aggregazione sociale, oltre che un coreografico rito di massa. Lo aveva capito il nostro Pier Paolo Pasolini (che ogni tanto due calci al pallone li tirava ed era pure un tifoso sfegatato del Bologna), secondo il quale «il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», ma anche «lo spettacolo che ha sostituito il teatro». Citazione ormai inflazionata, certamente, e tuttavia ancora efficacissima. Specie se accompagnata alla monumentale riflessione dell'antropologo britannico Desmond Morris, che ne La tribù del calcio (Rizzoli, 2016) ci mette di fronte alla riproduzione stilizzata di qualcosa che va oltre il rettangolo verde e tocca le battaglie, il senso più profondo di comunità, antichi rituali, cerimonie religiose. Un oceano nel quale, viene da pensare, il Belpaese si sente a suo agio, attaccato com'è ai campanili e a rivalità cittadine che in taluni casi risalgono al periodo dei Comuni.
Ma il calcio è molto altro: passione febbrile, business, religione laica, compagno ideale di poeti, scrittori, pensatori, artisti. Quelli testé menzionati fanno parte del ricchissimo pantheon allestito da Alessandro Gnocchi ne Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell'anno. Calcio e letteratura, edito da Baldini+Castoldi (128 pag., 16 euro), una "partita" dai risvolti letterari che lascia la parola ai grandi maestri e alle loro figure, e mette al bando le banalità linguistiche che spesso inquinano la discussione. Un'impresa titanica, ha ragione Gnocchi: scrivere di calcio è molto difficile proprio perché siamo bombardati dai luoghi comuni. Per questo il suo racconto acquista valore. Che sia merito della forza dirompente della poesia, della prosa, della musica, poco importa: il pallone si mette in posa con il suo abito migliore e si lascia sedurre dalle carezze di chi lo sa apprezzare nelle sue molteplici sfaccettature.
Ed è - quello di Gnocchi ma anche di chi è stato da lui interpellato - un amore a tutto tondo, che travalica confini, culture, modi di essere, fedi diverse. Eppure, a dispetto dei tempi che cambiano, il calcio resta sempre lo stesso, sebbene velato da una leggera patina di disincanto. Perché è vero, come scrive Eduardo Galeano, che «il gioco si è trasformato in spettacolo (...) e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo», ma resta pur sempre la speranza viva del linguaggio, che, per dirla ancora con Pasolini, si nutre del conflitto, guarda caso, tra prosa (calcio europeo) e poesia (calcio latino).
Alessandro Gnocchi
Quello di Gnocchi è un piccolo manuale per calciofili, ma non è azzardato sostenere che possa conquistare anche i profani. Il tono è colloquiale, la scrittura delicata e godibile. Ma, soprattutto, il suo libro è ben lontano dall'essere un minestrone stucchevole di citazioni partorito per compiacere i fanatici dell'erudizione. Al contrario, ogni sua scelta letteraria è funzionale a riportare il lettore a bordo del dilemma per antonomasia: il calcio è metafora dell'esistenza o è vero il contrario? La risposta è aperta: «Senza dubbio, lo spettacolo del calcio, in particolare se osservato dal campo, come giocatori, ha un fortissimo legame con la vita; e per questo è sempre interessante, perfino quando è noioso».
Insomma niente a che vedere con la teoria, un po' qualunquistica, dei ventidue "alieni" che corrono dietro a una palla. Chiedetelo a un poeta come Umberto Saba, che il calcio lo detestava ma, dopo aver assistito alla sfida tra Triestina e Ambrosiana (15 ottobre 1933), si trasformò in un tifoso. Valga per tutti Goal, il vangelo poetico dei sentimenti secondo i portieri dopo una rete subita. «Una poesia sulla solitudine» che scava all'interno dell'anima. O chiedetelo a Diego Armando Maradona, che ai Mondiali di Messico '86 sferrò uno schiaffo, anzi un pugno politico ai "nemici" inglesi con un gol truffaldino e geniale che ancora oggi porta un'aureola sul capo: la mano de Dios. O forse aveva ragione Albert Camus: il calcio è una cassetta degli attrezzi per la vita di tutti i giorni. Chissà.
Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell'anno. Calcio e letteratura
di Alessandro Gnocchi
Baldini + Castoldi - 2021
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