Qualche giorno fa un quotidiano nazionale titolava “Scacco Matteo”, ad evidenziare l’efficace e cinica strategia del ragazzo di Rignano, provetto scacchista. Già, perché la mossa spregiudicata che ci ha buttato in una crisi politica in piena pandemia è degna del miglior arrocco di Bobby Fisher. Renzi, che detiene la golden share del Governo fin dalla sua fondazione, nel giro di poche ore ha: respinto la bozza del recovery fund, ritirato ministri ed appoggio alla maggioranza, mandato a casa il presidente del Consiglio, incrinato forse irreversibilmente la prospettiva di un centro sinistra futuro tra PD e Cinque Stelle, “suggerito” il Governo di alto profilo con una personalità indiscutibile per l’establishment europeo, dettato le regole per i prossimi due anni nel mentre, utili a lui più che ad altri per ridefinire un polo moderato che cambi l’offerta politica in vista della scadenza naturale del 2023.
Questo può non piacere ai più, ma è altrettanto innegabile. Innegabile cioè che il Renzi di sempre, quello della rottamazione delle esperienze, il populista della disintermediazione della rappresentanza, il traghettatore mancato dal bicameralismo imperfetto al monocameralismo indecente, sia stato colui che ha condotto le danze. Ora, mentre attendiamo di capire quale sarà la linea degli «equilibri più avanzati» del futuro Governo Draghi (per dirla con la famosa ed antica locuzione del socialista Francesco De Martino), non può certo sfuggire che le cause di questa crisi - per essere comprese - vadano ricercate anche in ragioni prepolitiche. Del resto, la sua stessa narrazione pervicacemente portata avanti dai media per settimane come una sorta di sfida all’ok Corral tra personalità narcisistiche, ha disseminato d’indizi la parabola dei loro protagonisti.
Nadia Urbinati, ad esempio, non usa mezze misure in proposito: “Renzi non fa il bene del Paese, fa il bene di se stesso: non ha una visione politica, ha una visione di strategia che possono avere coloro che giocano bene a poker: ingannare, fingere, nascondere la mano, afferrare, vincere e godere della vittoria”.
Ma anche sul fronte opposto della disfida le cose non vanno meglio. Mattia Feltri scomoda addirittura il Perelà, l’omino di fumo di Aldo Palazzeschi, che già adulto spuntò dal camino, ovvero dal nulla, e si mostrò al mondo, per spiegare la misteriosa figura di Conte: “Arrivò in città e i cittadini videro che era di fumo e se ne incuriosirono, perché gli uomini erano pesanti e talvolta soldati o cattedratici o principi, cioè appesantiti dalle armature, dal sapere, dalle responsabilità, mentre lui era leggero, era di fumo: più che leggero, era etereo… era, insomma, proprio quello che serviva. Ma quando sopraggiunse una disgrazia, l’omino di fumo fu altrettanto fumoso di prima, e dove si diceva leggerezza si disse vacuità, e dove si diceva purezza si disse incoscienza…”.
Solo gossip? Solo espedienti di marketing del sistema mediatico? Non credo. La parabola dei protagonisti di questa crisi è rivelatrice delle debolezze della politica italiana. Tanto il narcinismo (per usare la miscela esplosiva di narcisismo e cinismo rispolverata da Recalcati) di “demolition man” che, mentre finge di parlare di recovery fund e di MES, dà in pasto alla bulimia di uomini forti (o più propriamente furbi), che da sempre alberga nel popolo italico, il suo ego ipertrofico. Quanto l’evanescenza dell’omino di fumo capace di conseguire gradimenti mai visti in un paese reale, che confonde spesso notorietà e consenso, come in quello virtuale like e contenuti, rivelatrice di una fragilità di sistema che, negli anni della pandemia, trasforma il Presidente del Consiglio in un badante delle paure quotidiane alleviate dall’inconfessabile tepore dei lock down, come con grande efficacia Chiara Gamberale definisce il grande Beppe (Conte) nel godibile pamphlet Il mare in un bicchiere.
Due straordinarie rappresentazioni della perdita della centralità di quelle comunità politiche che sono i partiti, luoghi collettivi di destino nell’accezione di Edgard Morin, sempre più derubricati a perenni comitati elettorali del leader di turno. Sistema dei partiti che, mentre festeggia la morte in culla della panzana della democrazia diretta e dei suoi epigoni a cinque stelle, pare d’altro canto soffrire la più grave crisi di sistema dai tempi di tangentopoli. Uomini soli che determinano i destini di milioni di altri uomini e donne soli nell’incertezza di un futuro che non è più quello di una volta.
Ma forse non tutto è perduto: nel paese dov’è sempre l’otto settembre, la debolezza dei momenti bui diviene paradossalmente pregio, occasione per ricominciare da capo in un’eterna coazione a ripetere. Così, l’arrivo di un altro uomo più solido che “solo”, più autorevole che affabile, più competente che convincente, potrebbe consegnare l’ennesima occasione al sistema politico per non affondare; l’ennesimo tempo sospeso in cui riorganizzare le idee, definire identità, offerte politiche e riferimenti sociali. Tutte questioni in questi anni un po’ più confuse di un tempo.
L’efficacia della missione transitoria del governo di (quasi) tutti - a cui è demandato il compito di risolvere le due grandi questioni recovery e pandemia - prima che nel curriculum di Draghi va ricercata nel contesto europeo di oggi, nella condivisione del debito, nel rapporto tra prestiti e risorse a fondo perduto del Recovery Fund. Oltreché nel whatever it takes di Mario Draghi, nella determinazione politica di Ursula von der Leyen. Insomma, uomini soli di tutto il mondo unitevi perché, come ricordava Don Milani, “sortirne insieme è politica, sortirne da soli è avarizia”.
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