Il posto di ognuno, terzo appuntamento con Il commissario Ricciardi, la serie targata Raiuno basata sui romanzi di Maurizio de Giovanni, è andato in onda lunedì scorso. Sempre confortante il successo di pubblico per questo prodotto ambizioso e nel complesso ben confezionato, visto che con 5.521.000 spettatori si piazza di nuovo al primo posto nella guerra degli ascolti.
Stavolta Luigi Alfredo Ricciardi, il tenebroso commissario della Regia Questura nella Napoli del ventennio, interpretato da Lino Guanciale, deve vedersela con la morte violenta della spregiudicata Adriana Musso, duchessa di Camparino (Pasqualina Sanna).
Entrata al servizio dell'aristocratica famiglia come semplice infermiera durante la malattia della prima moglie del duca Matteo (Vittorio Ciorcalo), la donna è poi riuscita a farsi sposare. Ma la liason col duca era iniziata ben prima della morte della moglie, come il figlio di primo letto, il signorino Ettore (Daniele Marino), ricorderà con amarezza a un impassibile Ricciardi.
Di molti anni più giovane del marito - da diversi mesi ormai costretto a letto da una gravissima affezione ai polmoni - la nuova duchessa aveva fin da subito condotto una vita libera, collezionando amanti e rinsaldando il biasimo venato d'odio del giovane erede. Isolatosi di sua volontà nel sottotetto del palazzo dopo il secondo matrimonio del padre e apertamente felice adesso della morte della matrigna (quella risata in faccia al brigadiere che gli fa le condoglianze).
Trovata cadavere sul divano del salotto con un buco in testa e uccisa da un unico, preciso colpo di pistola, la Musso presenta però escoriazioni e lividi in varie parti del corpo, forse legati a una colluttazione o a un estremo tentativo di difesa. Complice il frastuono della festa di Santa Maria Regina, che s'è svolta sul vasto piazzale di fronte al palazzo la stessa sera dell'omicidio, nessuno dei non pochi abitanti della casa sembra però aver sentito nulla.
Oltre all'anziano duca, impossibilitato a lasciare il letto e intontito dai sedativi, e al figlio confinato all'ultimo piano, fuori posto dunque in quest'ormai dissestato paesaggio familiare, a palazzo Camparino abitano il custode e tuttofare Peppino Sciarra (Luigi Credendino) con la moglie Mariuccia e i piccoli Lisetta e Totonno; nonché Concetta Scivo, l'attempata governante di casa, una Tiziana Tirrito decisamente più esile e tremula dell'austero corazziere caninamente devoto alla famiglia descritto nel romanzo.
Il commissario Ricciardi e il fedele brigadiere Maione (Antonio Milo) s'impegnano così in un'indagine complessa, resa ancor più angosciosa dal caldo soffocante che incombe sulla città: dopo l'inverno de Il senso del dolore e la primavera de La condanna del sangue, a far da sfondo a Il posto di ognuno è ormai l'infuocata estate napoletana. E dall'acuirsi di alcuni nodi esistenziali: la gelosia per la sua bella moglie ritrovata, Lucia, da parte di un insicuro Maione in sovrappeso; e quella per la dirimpettaia Enrica, corteggiata da un bellimbusto col beneplacito dei genitori, da parte del tormentato Ricciardi.
A sua volta raggiunto a Napoli dalla bellissima Livia Lucani, vedova Vezzi (una sinuosa e ammaliante Serena Iansiti), decisa a travolgerne la ritrosia.
A ostacolare ulteriormente il sereno decorso della giustizia si frappongono poi come di consueto le palpitanti remore del vicequestore Garzo, un Mario Pirrello sempre più efficace e divertente nel ruolo del pavido funzionario devoto al regime. Allarmato, dato l'ambiente in cui è maturato il delitto, dal possibile coinvolgimento di personalità in vista e come sempre ansioso d'intimare cautela e rispetto al tetragono Ricciardi.
Anche perché tra gli amanti storici della defunta signora Musso figura Mario Capece (Luca Saccoia), giornalista di punta del Roma: importante testata cittadina pronta, nelle pessimistiche proiezioni del vicequestore, a scatenargli contro le proprie truppe nel caso di un'eventuale incriminazione della sua firma più prestigiosa. Per quanto la lunga e travagliatissima relazione con la volubile duchessa abbia trasformato Capece in un relitto abbracciato alla bottiglia, e precipitato la sua famiglia in una prigione senza luce né aria. Oltre alla moglie Sofia (Rossana Ferrara), in perenne, educata e agghiacciante attesa del ritorno dell'amatissimo consorte, a vivere ormai da mesi in una sorta di apnea sono anche i figli di Capece, l'undicenne Giovanna (Angela Maria Balzano) e l'adolescente Andrea (un impressionante Domenico Cuomo, inquietante nel fisico sottile, incurvato, negli occhi chiarissimi incupiti dal dolore).
Chiuso nel rancore per l'abbandono del padre e l'evidente disperazione della mamma, Andrea sarà protagonista, nel finale, d'un vero depistaggio (la Beretta sottratta alla cassaforte e nascosta vicino casa), nell'estremo tentativo di sottrarre alle sue responsabilità una madre resa folle dalla gelosia.
A far da sfondo all'intricata vicenda, come precedibile, le pene d'amore di Ricciardi, suo malgrado sorpreso più d'una volta in amabile conversazione con Livia da un'Enrica anche lei travolta e paralizzata da un'impotente gelosia (un'angolosa e repressa Maria Vera Ratti). E tormentato, oltre che dall'ossessivo ritornello sussurrato nell'ombra dalla duchessa ritta di fianco al proprio cadavere (L'anello, l'anello, hai tolto l'anello...), dalle consuete immagini di morti ammazzati che gli spuntano di continuo davanti.
E che raccontano, ormai sempre più spesso, d'una violenza istituzionalizzata e crescente: con quell'invalido dissidente massacrato a bastonate da una squadraccia e il disperato rimprovero sussurrato tra i denti spezzati: “Buffoni pagliacci, quattro contro uno, vergogna, vergogna, buffoni pagliacci...”.
In anticipo rispetto alla versione letteraria, compare nell'episodio di Raiuno il misterioso funzionario Falco, piazzato non si sa bene (ancora...) da chi né perché alle riluttanti costole di un'insofferente vedova Vezzi, con il pretesto del trasferimento della donna nella città dell'amato Ricciardi, una città difficile, come viene più volte definita, soprattutto per una donna sola. Nelle dubbie vesti d'angelo custode un efficace Marco Palvetti, perfetto nel suo enigmatico mezzo profilo, nelle frasi sussurrate all'orecchio dell'attonita Livia.
Come ormai consueto, abbastanza imprevedibile il reale autore dell'omicidio (al di là di quella vera e propria esecuzione dell'indegna Adriana da parte d'una Capece in preda al delirio): quel buffo custode di palazzo, quel Peppino Sciarra gravato dai figli e da una moglie costantemente in lacrime, che dopo una fugace apparizione iniziale scompare in pratica per tutta la puntata.
Artefice, nel libro come nel film, d'uno stratagemma per introdursi in casa durante le frequenti assenze notturne della duchessa - quell'anello di morbido piombo aggiunto ai pesanti anelli di ferro della catena che chiude il cancello - e sorpreso nell'atto di rubare un po' di cibo dalla Musso (rientrata all'improvviso e molto più presto del solito dopo un litigio col geloso Capece), lo Sciarra, reso folle dalla minaccia di licenziamento e dal terrore di perdere il proprio posto, dopo una violenta colluttazione riduce la donna in fin di vita premendole un cuscino sul viso (le escoriazioni e gli ematomi rilevati dal dottor Modo, l'anatomopatologo).
Macchiandosi quasi per caso d'un delitto atroce (portato poi a compimento dalla follia giustizialista di Sofia Capece, sopraggiunta nella notte a palazzo con la Beretta del marito), al solo scopo di non far patire di nuovo a figli e moglie le privazioni e gli stenti della vita di strada. Com'è stato, invece, nei primi terribili anni della loro vita a Napoli, quando, estranei alla città e senza lavoro, marito e moglie dormivano a turno sotto i ponti per evitare che i topi si mangiassero nasi e orecchie delle creature. “Credetemi, l'ho visto succedere”, racconta nel libro al silenzioso Ricciardi un ben più motivato personaggio. Una fame atavica che ha contagiato pure chi non può ricordarla o addirittura non l'ha provata mai: come, appunto, i due piccoli Sciarra, perennemente a caccia di cibo e sempre in lite l'un con l'altro per l'ultimo tozzo di pane. Un aspetto, questo, più volte sottolineato nel libro e irrilevante nella versione televisiva, dove il costante ricorso dello stipendiato custode alla ben provvista dispensa di casa Musso appare di fatto immotivato e sembra quasi giustificare il furioso appellativo di ladro lanciatogli dalla duchessa e l'irrevocabile licenziamento.
Nel romanzo, invece, Peppino Sciarra - tra l'altro descritto come un uomo minuto e bassino, con una stridula vocina e un enorme naso che spunta dal cappello della divisa, troppo largo per lui come la divisa stessa: un topino, insomma... - viene sorpreso dalla Musso nell'atto di portarsi via dalla cucina un pezzetto di formaggio per la figlia: che gliel'ha chiesto fin dal mattino come una sorta di regalo, una leccornia non certo necessaria ma gradita. Lo stesso pezzo di formaggio che l'uomo racconterà d'aver stretto convulsamente, dimentico di sé, anche durante l'omicidio della duchessa e che si ritroverà ancora in mano una volta tornato a casa dalla spaventatissima moglie Mariuccia...
Ben definito e toccante nel libro, Peppino Sciarra nella versione per il piccolo schermo appare di fatto assente per buona parte dell'indagine: che, tra le più intricate, vede pure l'amore clandestino e anch'esso fuori posto tra il giovane duca e il funzionario del Fascio Achille Pivani (un intenso, impeccabile Giuseppe Lanino).
Ormai decodificato nel ruolo e nelle motivazioni dall'insoddisfatto Ricciardi, insospettito dagli indizi fuori allineamento e in fondo poco convinto della reale colpevolezza della moglie del giornalista, il custode assassino a ogni modo spunterà fuori di nuovo solo alla fine. Quando il commissario sarà raggiunto d'un tratto da un'irrelata folgorazione grazie all'omelia sulla catena d'amore, che avvince il Signore alle sue creature, pronunciata da don Pierino, il piccolo prete amante dell'opera già protagonista de Il senso del dolore (Peppe Servillo).
Tra i plus dell'episodio, ancora una volta, i bei costumi di Alessandra Torella (i vezzosi tailleurini color crema della bruna vedova Vezzi, i camiciotti di Enrica, le vestagliette di Bambinella...). E poi fotografia, ambientazione, scenografia, il décor generale, molto curato e molto riuscito, col bel palazzo Camparino che in realtà è Palazzo Mondo di Capodrise: sue le vaste stanze ariose, i larghi pianerottoli presidiati dagli affreschi dei Santi...
E davvero convincente l'interpretazione di Guanciale: più maturo del personaggio letterario, l'appena trentenne Luigi Alfredo, e ciò nonostante in grado di dar spessore e credibilità alla personalità ritrosa, tormentata e schiva del barone di Malomonte.
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